Denti da squalo, la recensione: la differenza tra fantasia e ricordo

Denti da squalo

Nove anni. Sono passati nove anni da quando Valerio Cilio e Gianluca Leoncini hanno vinto il Premio Solinas con la sceneggiatura del film di cui stiamo per parlare, talmente valida da convincere Gabriele Mainetti a tenerla nel cassetto per tutto questo tempo e infine selezionarla come la prima pellicola da produrre con la sua Goon Films (a cui poi si sono affiancate Lucky Red, Rai Cinema e Prime Video). Cosa aveva di speciale? La sua capacità di fondere tanti generi differenti (dramma, commedia, avventura ed elemento fantastico) in un modo fresco e delicato pur mantenendo una solidità e una coerenza di fondo in grado di farla rimanere una “storia piccola”. Capendo quindi che si tratta di una delle cose di cui, in questi tempi, abbiamo più bisogno. Pensate all’onere del regista.

Iniziamo la recensione di Denti da squalo, al cinema dall’8 giugno distribuito da Lucky Red, sottolineando che è il primo lungometraggio del regista Davide Gentile nonostante sulla carta presentasse tutte le caratteristiche per non essere la scelta preferibile per un’opera prima. Non solo per via del già accennato mix di registri linguistici, ma anche per la presenza di un casting molto giovane e, soprattutto, per il personaggio dello squalo (il primo animatronic del genere, che doveva funzionare anche come fattore filmico importante pur rimanendo vincolato all’elemento acquatico, per nulla semplice da gestire neanche questo) e una location specifica a cui il grande pubblico negli ultimi anni ha sempre legato un preciso immaginario, presente anche qui, ma da cui il film ha il bisogno di trovare una posizione più distante. Pensate all’onere del regista.

Il regista era dunque chiamato ad essere un ottimo direttore d’orchestra prima ancora di essere qualsiasi altra cosa, senza contare che doveva trovare una cifra personale per portare a casa il film. Non semplice.

Ad aiutarlo è stato probabilmente sia un produttore con le spalle molto larghe e famoso per essere un nome che non è solito né spaventarsi né accontentarsi e forse proprio il cast, composto da due veterani come Claudio Santamaria ed Edoardo Pesce, un’inedita Virginia Raffaele al suo primo ruolo drammatico, e i due giovanissimi, Stefano Rosci e il super esordiente Tiziano Menichelli. Di solito la cosa più importante è trovare la giusta chiave di lettura.

Voglio essere come papà

Walter (Menichelli) è un bambino di tredici anni all’apparenza più piccolo per uno della sua età. Un bambino di tredici anni tutto capelli silenzioso, timido, malinconico e dallo sguardo profondo come il mare del litorale romano dove vive con mamma Rita (Raffaele).

Il mare che per lui è sempre stato un elemento di gioia e rassicurazione e che ora, da quando è scomparso papà Antonio (Santamaria), è diventato l’ennesimo specchio dove cercare, invano, la risposta alla domanda che ossessiona la testa di chi ha quell’età (soprattutto quell’età, perché non è che poi il quesito passi mai del tutto): “chi sono io?”.

Una perdita enorme quella con cui Walter deve fare i conti e che neanche la madre riesce a gestire, tanto che i due non riescono ad aprire un dialogo, un canale per poterla manipolare, assaggiare e poi digerire o almeno cominciare a farlo. Giù guardarsi negli occhi sarebbe un passo da non sottovalutare, magari per rispondere alla domanda di cui sopra. Walter  è un bambino di tredici anni all’apparenza più piccolo per uno della sua età.

Denti da squalo

Il nostro opta allora per l’identificazione con quello che Antonio era prima di cambiare vita e attraverso la più classica delle ricerche prova a trovarlo nei volti e nei luoghi che ne hanno caratterizzato la prima parte della sua esistenza, che lo ha reso “celebre” (almeno a livello locale) e che gli permette ancora di essere vivo in qualche modo, al contrario della sua seconda versione, che lo ha condannato ad un destino infelice e senza gloria, specialmente per gli occhi di un bimbo di 13 anni.

La famosa X del tesoro Walter la trova in una villa più o meno disabitata, ma ha delle sembianze non proprio amichevoli, come spesso capita in questi casi.

L’importanza delle piccole storie

Facilmente alla visione di un film come Denti da squalo può capitare di soffermarsi sulle sfumature degli immaginari che tocca. Dall’elemento fantastico legato al predatore marino inserito nel titolo, a quello legato ad una microcriminalità che riporta alla luce il leitmotiv del cinema italiano recente legato alle realtà di periferia questa volta fuso con un’idea di avventura quasi piratesca rimandante un filone d’avventura prettamente nordamericano a cui Mainetti è sicuramente legato. In generale la sua volontà di sperimentare, allargare il raggio e rielaborare dei topoi invece piuttosto classici. Da cui anche tutto il discorso che la pellicola diretta da Gentile intavola sulla destrutturazione di un certo tipo di mascolinità.

Quello che invece è ciò che rappresenta il cuore pulsante della narrazione e permette di far girare tutto il resto è la sua capacità di trovare un certo tono, un certo colore e un certo passo nel raccontare una storia piccola, che è poi la dimensione migliore per parlare delle cose che contano davvero. Le piccole cose, se viste da vicino, ci fanno accorgere che sono le più grandi di tutte. Facilmente alla visione di un film come Denti da squalo può capitare di soffermarsi sulle sfumature degli immaginari che tocca.

Denti da squalo

Il film ce lo dice dall’inizio, anzi, specialmente all’inizio riuscendo a raccontare tutto quanto con le armi primitive del cinema, ovvero le immagini e il loro ritmo di successione. Prendendo anche in contropiede lo spettatore, ma anche consegnandogli tutti gli strumenti per capire ciò che sta per vedere: un coming of age che passa per l’elaborazione di un lutto. Che è prima di una fantasia, poi di un ricordo e infine di un padre.

Una struttura classica, anche per i film in cui è presente il rapporto tra un ragazzo e un animale, che nella sua solidità nucleare si concede il lusso di vestirsi e di truccarsi in modo particolare. Decidendo per quel capello, quel trucco e quelle scarpe fino a dar vita ad un outfit riconoscibile e, allo stesso tempo, assolutamente personale. Una libertà anche questa. Tanto però doveva passare per la resa di un personaggio fondamentale…

Cosa rende uno squalo tale?

Lo squalo è un animale scomodo, perché ad esso è legato un preciso immaginario che lo dipinge come un predatore assetato di sangue e dallo sguardo imperscrutabile. Fa anche più paura dell’orca a guardarlo e, soprattutto, non può vantare il medesimo fascino.

Paradossalmente però rappresenta anche l’animale migliore per ribaltare il concetto di male e di cattiveria e aggressività. La dimensione quasi fantastica che Gentile decide di donargli (pur cercando di portarlo sullo schermo al meglio tra digitale e analogico) gli conferisce quel tocco di delicatezza che gli serviva per entrare nella pellicola senza rompere quegli equilibri fondamentali per rendere il tutto organico. Di più, è questa sua rappresentazione che quasi esula dichiaratamente dal realismo a permettergli di elevarsi più facilmente a metafora e specchio di un bambino che attraverso il suo rapporto con lui deve riscoprire chi era suo papà. Per capire, diciamo, che a volte neanche uno squalo è propriamente tale e che non c’è nulla di “poco glorioso” in questo.

Denti da squalo

Fa anche più paura dell’orca a guardarlo e, soprattutto, non può vantare il medesimo fascino. In conclusione, Denti da squalo è un’opera prima coraggiosa, difficile e interessante, che cerca di riaccordare un genere classico investendo in una dimensione favolistica fortemente contaminata, ogni tanto balbettando in talune soluzione sia visive che di trama e inciampando anche in delle accordature nei momenti in cui deve passare dalla sua parte più riflessiva a quella maggiormente legata al racconto del mondo esterno. Una pellicola al passo con i tempi che ha lo scopo di unire cinema commerciale e quello più intimista.

Denti da squalo è al cinema da giovedì 8 giugno 2023 distribuito da Lucky Red.

65
Denti da squalo
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Denti da squalo è il primo film prodotto dalla Goon Films di Gabriele Mainetti ed è anche il primo lungometraggio del regista Davide Gentile e il primo titolo drammatico per Virginia Raffaele, affiancata da Claudio Santamaria, Edoardo Pesce e l'esordiente Tiziano Menichelli. Si tratta di un coming of age dalle tinte fiabesche che ci narra dell'elaborazione di un lutto attraverso il rapporto con uno squalo e soprattutto l'idea che si ha dello squalo in generale. Un film interessante che parte alla grande e che però risulta credibile soprattutto nella sua parte più legata all'elaborazione del lutto, accusando un po' la difficoltà del suo imponente apparato immaginifico. Il suo nucleo è ciò gli permette di funzionare fino alla fine, ribadendo ancora una volta l'importanza delle piccole storie.

ME GUSTA
  • Le prove di Tiziano Menichelli e Virginia Raffaele.
  • La resa dello squalo e il suo rapporto con il personaggio di Walter.
  • Il discorso sull'elaborazione del lutto che passa dalla negazione la scoperta di se stessi.
  • I luoghi sono fotografati in modo convincente e assolutamente coerente.
  • L'inizio della pellicola è molto bello.
FAIL
  • Ci sono delle criticità in alcune soluzione narrative e qualcosina anche a livello visivo, per un occhio attento.
  • La pellicola non riesce a risolvere le difficoltà nei momenti in cui deve coniugare le sue due anime.
  • Ci sono alcuni momenti recitativi che difettano rispetto ad altri.
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