Antefatto

Vestiti neri attillati, pelle lunare, quasi trasparente, cranio rasato ai lati, criniera verde neon, piercing o orecchini appesi come scacciapensieri..

 

Mark Renton aveva già scattato la fotografia mentale della donna quando gli chiese il permesso di mettere il trolley di fianco a lui, o meglio fra la porta e il sedile dove stava perdendo impercettibilmente la normale lordosi lombare.

Fino a quel momento, proteso sul finestrino sudicio, rapito dal via vai e dai fischi della fermata, la stazione di Braemar, aveva speso alcuni minuti sussurando quelle parole come un mantra, appannando il vetro: “la normale lordosi lombare..la normale lordosi lombare..” Un’espressione riferitagli dal medico. Non dal suo spacciatore, un medico vero. Mark si era poi risolto a parafrasare il linguaggio scientifico: mi sto ingobbendo a partire dall’osso sacro  – la riflessione – manco fossi un coltivatore di riso che fa gli straordinari. E mentre vagheggiava su un’involuzione lampo che in pochi decenni lo avrebbe reso quadrupede, oltre che pendolare, era stato approcciato dal nuovo ospite della carrozza.

 

Punto di vista sul Renton annebbiato

I postumi dell’ultima pera non solo gli rendevano ogni posizione viziata di una comodità oscena, ma agivano sulla percezione dello spazio-tempo. Un’eco di quanto succedeva gli risuonava nella corteccia cerebrale, e lui poteva decidere se ignorarlo o no. Non stavolta. In uno sforzo ruppe la coltre oppiacea, quasi sbattendo il naso sul finestrino, e proprio mentre il treno ripartiva vide quell’eco. Lo acciuffò, come una linea temporale da riavvolgere, e in quello che gli pareva un rimbombo rispose. Quindi roteò gli occhi per seguire lo scorrimento del trolley fino al punto d’arrivo, accanto a sé.

 

Punto di vista sul Renton col senno di poi

Una donna si era materializzata senza cigolii di porta, e sospesa come un fantasma aveva osservato il contenuto del vagone, dandogli le spalle. Infine di scatto si era rivolta a lui. Il redivivo Renton aveva acconsentito alla richiesta in un eccesso di galanteria, credette poi, da subdolo dongiovanni. 

Erano stati liberati nell’aria un grazie e un prego, in una nube di CO2, notò con rammarico. Poiché in mattinata, alla riconsegna del biglietto, aveva debolmente ringraziato il controllore che aveva detto grazie a sua volta, ora le parole emesse, secondo Mark, non avevano mittenti né destinatari. Schiavo del bon ton, ammise con sé stesso. L’impersonalità con cui era cresciuta una barriera fra sconosciuti lo aveva fatto rinsavire completamente, prendendo le sembianze di un crampo allo stomaco.

 

Replay e sviluppo

Mentre il trolley veniva sistemato si ricompose sullo schienale, facendo attrito sulla stoffa antimacchia (dai sospetti aloni color senape) per ricavarsi un giaciglio. Durante l’operazione la sciarpa avvolta attorno al collo si srotolò nelle due estremità, toccando i poggiagomiti. Non se ne curò.

L’avventora, che in quell’istante fletteva le ginocchia per sedersi, ancora erta sui dr. martens scoppiò in un acuto singhiozzo. Una specie di urlo, simile al verso del capriolo in amore o di quello braccato dal cacciatore. Con un tonfo polveroso si lasciò andare del tutto, e si tappò la bocca recuperando le mani dai fianchi. Così rimase, impietrita, fissando il proprio bagaglio, come una bestemmiatrice nel bel mezzo di un funerale, o come il personaggio di un film che soffoca un respiro affannoso per non essere scoperto dal villain di turno, si ritrovò a fantasticare Mark.

Ebbe altri flash in merito, finché non si costrinse a leggere la situazione per quello che era. Niente di anomalo, solo un singhiozzo fuori scala e il tentativo di domare la fonte del disagio. O c’era dell’altro, una forma di cortesia acustica? Non si diede per vinto.

 

Il duo

All’improvviso un secondo colpo, stavolta attutito, scosse il busto della donna, e un terzo, un quarto e così via, e a Renton quasi dispiacque vedere quella figura punk sempre più infragilita e inerme. Gli ricordava Alita, la cyborg protagonista del manga omonimo, che nel primo capitolo è in balia del proprio corpo meccanico semidistrutto, e si trascina in una discarica. Mark voleva essere lo scienziato che la raccoglie e la ripara.

Dev’essere qualcosa di serio, come un pogo interiore. Da lucido si sentiva disabituato alle vicende mondane, istintivamente vi faceva più caso. Comunque ogni distrazione era buona per ignorare lo stomaco, che si attorcigliava in una morsa pari a quella di un pitone masochista. Un po d’acqua gli avrebbe giovato, per sciogliere la lingua e interagire con la singhiozzatrice, calmare i nervi, pensò. Così agguantò la bottiglietta di plastica e bevve quanto restava. Gli andò tutta di traverso facendolo tossire, si era completamente scordato del travaso con la vodka del supermercato. Fece scivolare ugualmente le ultime gocce sulla lingua.

Da quel momento in avanti, per una buona mezz’ora, tagliando per i caseggiati e i prati, imboccando gallerie e facendo tremare costantemente la terra, il singhiozzo continuò. Era più moderato rispetto all’acuto d’apertura, la sottile bocca di lei ora visibile e in preda a piccoli sussulti, il mento tra le mani a coppa, piegato di lato o verso il basso con aria di dispiacere, e gli occhi disegnati col pennino fissi sulle dita tamburellanti di Renton, i cui colpi di tosse riempivano il vuoto tra una fitta addominale e ogni leggerissima convulsione della compagna di viaggio.

A un certo punto la donna piombò a capofitto sullo smartphone, scorrendo all’impazzata e reggendo i singhiozzi con una mano sola. Per farsi coraggio Mark pensò che sembravano un complesso musicale in cui lei faceva l’assolo, un beat in stile hip pop, mentre lui si occupava dell’accompagnamento sperimentale.

 

Il pubblico

Nel frattempo aveva notato le reazioni delle persone circostanti. Erano state di due tipi: una signora aveva condannato il fenomeno con una smorfia riluttante trasformatasi subito in acquiescente disgusto, mostrando più tic nervoso lei di tutte le singhiozzatrici con cui Mark aveva mai avuto il piacere di collaborare. Qualche sedile più dietro invece, dopo un altro acuto del genere da sopprimere a mani incrociate come se un alien le stesse dando il voltastomaco, due liceali tutte piastra e trucco bicolor mostravano dei ghigni divertiti, poi deformati da commenti vomitati direttamente nelle orecchie reciproche.

Il malore di Mark stava facendosi largo nei suoi pensieri, declinandoli al suo stato gastrico.

Intanto fingeva fastidio per la luce del sole negli occhi, che inspiegabilmente lo sporco dei vetri irradiava con intensità maggiore, o cercava di indursi sonnolenza, ed entrambe le cose erano in realtà abbastanza spontanee.

L’idea di raggiungere un bagno non lo esaltava. Aveva visto di peggio, questo è sicuro, ma tra sballottamenti ferroviari garantiti e un ritrovato pudore non voleva rischiare un trauma cranico a brache calate. Sperava solo in un pacifico abbandono, e che per la vicina le cose volgessero al meglio. Sentiva che il suo ruolo nel nuovo complesso musicale era poco incisivo. Aveva la presenza di un suonatore di triangolo incapace di leggere uno spartito, era un bucomane in perenne ricerca di autosufficienza che finiva sempre col dipendere da qualcuno o da qualcosa.

 

Epilogo

La donna persisteva ma Renton dette il colpo di tosse decisivo. Anche lo stomaco si placò. Ora finalmente intendeva attaccare bottone, dirle di trattenere il fiato, o fare del moto di spirito aggiungendo che aveva di certo battuto un guinness world record. Quel turbinio di fioretti da passeggero premuroso si spense quando realizzò che d’un tratto anche gli spasmi infiniti di lei erano scomparsi. Quella nuova normalità da inseguire era tornata alla vecchia quiete su rotaie.

Lo constatò bonariamente. “Ti è passato il singhiozzo”, disse.

Lei non aprì bocca, percorsa da un fremito, poi disse grazie e ottenne un prego in cambio. Erano arrivati al capolinea e a Mark toccava cambiare treno. Tutti gli altri pendolari si erano già accalcati davanti alle porte. Il tempo di alzarsi e fu in coda, sulla soglia dello scompartimento, colto dal sospetto che il loro bizzarro duo era stato fondato nel momento esatto in cui un grazie e un prego erano stati liberati nell’aria. Come ossigeno da alberi fottutamente muti, stabilì con aria soddisfatta.

Fu il penultimo a lasciare il treno. Sbirciando nella cabina, da fuori, vide la donna china sul telefono, tutta incurvata e indifferente al trolley che ancora stava appaiato al sedile. Fu così che Mark Renton, spostandosi di un passo, fece in modo che il gioco di luci naturali del mondo esterno si schiantasse contro il finestrino, mostrandogli il suo stesso riflesso.

Era cadaverico, un rigolo di sangue rappreso risaliva la sciarpa fino al colletto della giacca, e poco sopra una siringa gli pendeva dal collo, abbastanza conficcata da non sfilarsi, la base dello stantuffo appoggiata sulla spalla. “Merda, disse fra sé e sé, “porca merda.

 

Qui il primo episodio di The Trainspotter.