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Deontologia degli avvocati

Ma come fa un avvocato a difendere uno stupratore? O un assassino?

Quante volte avete pensato o avete sentito porre questa domanda?
Negli ultimi giorni dopo il verdetto del caso Knox\Sollecito l’ho sentita spesso.
Senza voler entrare nel merito della causa (Dyo me ne scampi) volevo, per chi fosse interessato, provare a dare una parziale risposta o almeno fornire gli strumenti per trovarla.
Partiamo da una definizione di deontologia professionale intanto:

La deontologia professionale consiste nell’insieme delle regole comportamentali, il cosiddetto “codice etico”, che si riferisce in questo caso ad una determinata categoria professionale.
Talune attività o professioni, a causa delle loro peculiari caratteristiche sociali, si pensi ai medici, agli psicologi o agli avvocati, devono rispettare un determinato codice comportamentale, il cui scopo è impedire di ledere la dignità o la salute di chi sia oggetto del loro operato. Ecco perché gli ordini professionali hanno elaborato codici di deontologia di cui sarebbero tutori mediante l’esercizio dei poteri disciplinari.

Il contesto italiano

Purtroppo nella filosofia del diritto ben poco si è scritto in argomento. Due studiosi si sono soffermati sul problema offrendo, seppur in poche pagine, contributi fondamentali: Giovanni Tarello e Luigi Lombardi Vallauri. I due sono ciascuno difensore di uno dei corni del dilemma di fronte al quale si trova la riflessione sui compiti dell’avvocato.
Tarello difende l’avvocato come “partigiano neutrale”; Lombardi Vallauri invece configura un avvocato “quasi-giudice”.

Giovanni Tarello é portatore di una concezione giuspositivistica e vagamente sociologistica. Le regole deontologiche si deducono “dall’analisi della struttura di quella organizzazione giuridica di cui si tratta” e poi “dalla “cultura”, che in una società storica gli operatori giuridici spartiscono con gli altri consociati”.
Quindi la deontologia risulta separata dall’etica e dalla filosofia morale.
Tarello parte dal dettato costituzionale:

art. 24, c. 2. “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.”

Art. 27, c. 2 “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.”

Da questi articoli deve dedursi che nell’orientamento italiano “il difensore penale deve sentirsi non già “principalmente” ma “esclusivamente” difensore, e come tale agire. In particolare non deve sentirsi, né deve agire mai in qualità di una sorta di ausiliario o collaboratore del giudice” (Tarello).

Tarello individua quindi tre regole deontologiche principali e centrali per ciò che concerne i rapporti tra avvocato ed assistito:
a) chi è scelto come difensore non può rifiutarsi d’accettare la difesa, tranne che per ragioni che ostino a un efficace perseguimento degli interessi della parte;
b) “La difesa deve essere condotta nel modo più efficace, sia sotto il profilo tecnico-giuridico sia sotto il profilo attinente alle situazioni di fatto, senza alcuna concessione alle convinzioni soggettive dell’avvocato o alle sue idee o opinioni”.
c) L’avvocato deve astenersi da tutto ciò che contrasti potenzialmente con i doveri di parzialità che definiscono il suo ruolo.
In parole povere: un avvocato potrebbe rifiutare di difendere il suo cliente per un caso di stupro se sua figlia fosse stata stuprata, perché questo coinvolgimento emotivo gli impedirebbe di essere pienamente efficiente nel processo.

Per questa “partigianeria neutrale” gli unici limiti etici dell’attività dell’avvocato sono quelli stabiliti dalla legge.
Conclusione: la deontologia, come regola distinta dalla norma giuridica, non serve a niente, ovvero non ha funzione specifica, poiché si assume che l’unico limite all’attività del difensore é dato dalla stessa legge.

Il principio deontologico di Tarello é molto inquietante: all’avvocato sarebbe lecito di approfittare di tutte le debolezze umane del giudice, di esercitare si di lui pressioni di ogni tipo, al fine di un’efficace difesa degli interessi del cliente. Il limite ultimo é solo quello della corruzione. Corrompere il giudice non si può ma circuirlo sì (la bustarella no, ma il numero della biondina sì?).
Tuttavia anche Tarello non riesce a sottrarsi alla tensione ed all’ambiguità della professione forense. Se l’avvocato ha l’obbligo di assumere la difesa di qualunque causa, se non può sottrarsi al dovere di soccorso dell’imputato, tuttavia la direzione della causa non può, secondo Tarello, che spettare a lui e non già dipendere dalle istruzioni o dalla volontà del cliente. L’avvocato interpreta e gestisce processualmente gli interessi e i diritti della parte in piena indipendenza. L’avvocato, dunque, difende non gli interessi privati, particolari, soggettivi della parte, ma più generalmente il diritto di libertà “proiettato” nel diritto fondamentale di difesa. La partigianeria di questo sarà allora parzialità non tanto riguardo agli interessi della parte, quanto riguardo ai diritto fondamentali dell’ordinamento oggettivamente definiti: “Rientra pienamente nella deontologia professione dell’avvocato il dovere di respingere le pressioni dell’assistito per prescegliere o per escludere una determinata linea difensiva o una particolare condotta processuale”. Alla fine dei conti la tesi della “neutrale partigianeria” assume dell’avvocato un’immagine positiva, o meglio ottimistica.

Ben diversa é la prospettiva eticistica che si fa interprete del sospetto che sulla figura dell’avvocato é permanente nella cultura e nella letteratura occidentale.
Lombardi Vallauri dice: “Nel ruolo dell’avvocato in quanto rappresentante in processo, autore di comparsi e di arringhe, di obiezioni procedurali e ricorsi, c’é qualcosa di poco limpido sia dal punto di vista intellettuale, sia dal punto di vista morale. La ricerca della verità e la difesa della ragione contro il torto si conciliano male con la vendita della propria logica al primo che passa.”

Qui si muove dalla constatazione che l’avvocato “interviene solitamente su casi di patologia dell’azione, e in particolare di patologia del rapporto umano”. L’avvocato si insinua nella lite, nel fallimento della relazione di comunicazione tra due o più esseri umani. E non per risolverla ma per radicalizzarla portandola alle sue estreme conseguenze: il processo. (Famigliare vero??)
Il processo é quindi un fatto patologico del diritto, evento quasi violento.

L’avvocato in realtà non parla all’altra parte (e al suo avvocato), ma si dirige a un terzo, al giudice. È questo il suo vero interlocutore. “L’avvocato é difensore di una parte, non della relazione.”
Lombardi Vallauri si é mosso a proporre quindi una revisione, anzi una riforma profonda, della professione forense. L’avvocato, da “giurista della terapia”, dovrebbe trasformarsi in “giurista della prevenzione”; in un certo senso, egli (come il giudice) dovrebbe avviarsi a svolegere funzioni di carattere pedagogico e terapeutico. L’avvocato diverrebbe quindi una sorta di “consigliere di pace”, compito del quale sarebbe riportare l’attenzione degli eventuali contendenti sui fondamenti della loro scelta e sui valori che li uniscono, non sugli interessi che li dividono e li fanno entrare in conflitto. C’é quindi una sorta di avvicinamento del ruolo del giudice a quello dell’avvocato.

Lombardi Vallauri propone allora una riforma del procedimento giudiziario: nel processo, una volta che le parti hanno nominato ciascuna un proprio legale, i due patroni nominano un terzo avvocato di comune fiducia. I tre avvocati costituiscono il collegio giudicante preliminare nel merito della lite. Prima di decidere (a maggioranza) devono esperire nei limiti possibile “ogni migliore tentativo per una definizione amichevole della controversia”. Una qualunque delle parti può impugnare la decisione e rivolgersi alla magistratura ordinaria. In tal caso il collegio e le parti sono obbligati a pagare una cospicua penale, per non essere stati capaci di giungere a una soluzione definitiva della controversia. Una volta adito il giudice ordinario il procedimento segue le vie ordinarie. Questo modello si fonda quindi su un sospetto non solo verso il ruolo dell’avvocato, ma anche e soprattutto verso la realtà del processo, di cui si ha una visione del tutto negativa.

La stessa idea di giustizia, però, è considera con sospetto. È l’amicizia il criterio a cui devono orientarsi le relazioni umane, più che quello di della giustizia. Giudice ed avvocato si avvicinano e si fondono nel giudice. L’avvocato si trasforma così da figura del conflitto a soggetto “paterno” e paternalista (certo, poi c’era la marmotta che incartava la cioccolata…).

Tra “morale immoralità” ed “attivismo morale”

Può un avvocato, per difendere il suo cliente, operare al fine di gettare il sospetto su un terzo – senza averne le prove né la convinzione della colpevolezza di questo? Può egli manipolare un testimone ed umiliarlo, degradarlo, screditarlo al fine di evitare che questo produca fatti probatori a carico del suo assistito? È lecito all’avvocato gettare discredito sui magistrati che hanno incriminato il suo cliente o su quelli che lo giudicano – al fine d’evitare che questo produca fatti probatori a carico del suo assistito? Continuate voi…

A queste domande si potrebbe rispondere solo dopo aver sciolto i nodi della deontologia della professione. Ora questa come detto sopra é stretta tra due opposte concezioni.
Da un lato abbiamo la neutrale parzialità, altrimenti detta “morale amoralità”. Per questa si dovrebbe rispondere affermativamente a tutte le domande. All’altro lato, troviamo la visione eticistica e paternalistica di un avvocato moralista che nella sua condotta anticipa l’azione del giudice. Non vi sarebbe causa per costui che non fosse anche “giusta”, né cliente che non fosse anche “buono”, né ancora parte che non avesse il diritto dalla sua. Tuttavia nella maggior parte delle controversie non si sa davvero dove sia il torto e dove la ragione.
Tuttavia anche il peggiore assassino ha il diritto di difendersi in giudizio – perché altrimenti non un giudizio, seppure terribile, si abbatterebbe su di lui ma solo una vendetta.

La giustificazione della “morale amoralità” dell’avvocato si basa in genere in una sorta di logica oggettiva, per cui dalla somma delle amoralità della condotta forense si avrebbe la moralità dell’amministrazione della giustizia.
L’altro argomento su cui si basa la tesi della “morale amoralità” è quello che si riferisce allo statuto delle morali professionali. L’attività di un ruolo e la sua moralità possono deviare dalla morale comune (come succede anche per i medici). Questo perché in quel ruolo vi è intrinsicamente una funazione che realizza un fine morale di grande rilevanza.

I passaggi sono questi:
1) Giustifichiamo una condotta moralmente controversa o discutibile o addirittura chiaramente inaccettabile mediante il riferimento a un certo ruolo o professione.
2) Quella condotta sarebbe manifestazione necessaria o giusta di quel ruolo o quella professione.
3) Il ruolo si giustifica poi come interno ad un certo sistema.
4) Infine si giustifica il sistema facendo appello a certi principi morali.

Questa strategia argomentativa ricade nella metodologia olistica ed é particolarmente fallace allorché alla morale ordinaria o universale si contrappone l’etica professionale. Se quest’ultima non può in qualche modo derivarsi dalla prima (o se vi entra in contrasto), finisce per perdere il riferimento all’universalizzabilità. Ma senza di questa non può essere considerata una morale.

L’alternativa alla tesi della “morale amoralità” è quella dell’ ”attivismo morale” dell’avvocato. Alcuni giusnaturalisti di spicco credono in una fondazione logica del principio supremo della moralità, il principio di coerenza generale, il cui contenuto é: ogni attore é titolare di diritti generali, vale a dire dei diritto alla soddisfazione dei bisogni necessari al dispiegamento della capacità di agire . Il concetto di diritto è quindi una definizione reale deducibile dal principio supremo della moralità. L’essenza del processo risiede nel fatto che i partecipanti alla procedura di composizione del conflitto mirino sinceramente e seriamente a produrre la decisione corretta. Il processo sarà quindi deficiente se, ad esempio, le parti, pur avendo accesso alle prove si astengono dal produrle per timore che queste risultino loro pregiudizievoli. Le parti possono mentire, avanzare argomenti giuridici, pur essendo intimamente convinte dell’invalidità di quegli argomenti. In tutti questi casi il processo risulterebbe deficiente. Il processo ha a che fare con il bene comune, con l’interesse comune. Le parti devono collaborare attivamente col giudice in ogni fase.

Il punto cruciale di questa ricostruzione é che la deontologia dell’avvocato é fondamentalmente la stessa del giudice. Questa conclusione schiaccia il ruolo dell’avvocato su quello del giudice e non tiene conto della situazione concreta del processo. Questo é innanzitutto una controversia, un conflitto, una lite, per la cui risoluzione ci si appella al terzo. L’avvocato è parte del processo. È bene che non sia anche giudice se no addio all’imparzialità.

Cosa scegliere allora?
a) una visione deontologica che si impernia sulla nozione di “morale amoralità”, per cui il patrono s’identifica con gli interessi della parte e nient’altro.
b) una visione di un avvocato “attivista morale” sostanzialmente affine al giudice.

L’estrema giustizia di Radbruch

Ora, facendo un’analisi ricostruttiva della storia e della pratica dell’istruzione dell’avvocatura, ci si imbatte subito in un dato.
Tradizionalmente sia nei sistemi di common law quanto nel diritto continentale europeo, l’avvocato è in realtà composto di due figure: v’é il procuratore, il rappresentante degli interessi della parte, e l’avvocato in senso stretto, il patrono del dibattimento. Questa duplicità ritrova nel sistema inglese dove il barrister difende in dibattimento e il solicitor svolge funzioni di procuratore. Tale duplicità di ruoli é altamente istruttiva se si ricorda che il barrister non aveva generalmente contatti diretti col cliente e che la sua oppera non é mai configurata giuridicamente come prestazione d’opera. L’avvocato, insomma, é qui indipendente dal cliente. E questo principio é riportato da quasi tutti i codici deontologici vigenti.
L’avvocato in dibattimento é ben lontano dalla difesa degli interessi del cliente. È la difesa dei diritti di questo ciò che lo preoccupa e che gli compete. Deve quindi conservare una certa distanza dal cliente. Nei codici deontologici europei si sottolinea che l’avvocato non deve sottostare alle istruzioni del cliente. L’avvocato é quindi amico del suo cliente ma tale amicizia é quella nobile nella quale non si approva qualsiasi condotta dell’amico né si accondiscendente a qualsivoglia sua iniziativa.

“Avvocato – coscienza a nolo” dice Dostoevskij. L’avvocato é una coscienza in affitto non nel senso che é capace di ogni misfatto ma nel senso che la sua funzione é quella di sorreggere e far riflettere la coscienza egocentrica del suo assistito. È una coscienza aggiuntiva, specchio della parte. Questa tesi può intendersi come applicazione all’attività forense dell’argomento dell’ “estrema giustizia” di Gustav Radbruch. Per Radbruch una legge ingiusta moralmente é invalida anche giuridicamente. Nondimeno per il giurista tedesco non ogni legge ingiusta é invalida; ché altrimenti si introdurrebbe un tasso molto elevato di incertezza. Tuttavia una legge che risulti intollerabilmente ingiusta non può essere considerata valida. La concezione del diritto come esaustivamente disponibile alla regola tecnica, che ne fa un’arma nelle mani di un individuo, non gode di alcuna autonomia concettuale, e il necessario confronto con principi legittimati pone limiti costitutivi al diritto ingiusto e ad ogni forma di discorso giuridico “intollerabilmente giusto”.

Possiamo applicare questa formula anche all’attività dell’avvocato. E cioè: l’avvocato può, nel rispetto della legge, usare argomenti e mettere in opera condotte a favore del suo cliente, anche se il loro orientamento alla giustizia (come valore morale) é dubbio o é addirittura contrario a questa, tranne che l’ingiustizia possibile conseguente ai suoi atti si presenti in proporzione tali da risultare intollerabile. Non ogni cosa é lecita all’avvocato, sia pure nel rispetto della legge, per difendere gli interessi e promuovere il soddisfacimento delle preferenze del cliente.

Fonti:
Wikipedia (meno male che sei tornata)
“Elementi di etica pratica” a cura di Gianfrancesco Zanetti

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