Il red carpet e la seconda giornata del Festival di Venezia 2022 viene aperta dal nuovo film di Todd Field che ha come protagonista una delle attrici più amate, brave e belle di Hollywood, Cate Blanchett.
Conosciuto più come attore che come regista, Field torna dietro la macchina da presa ben dopo 20 anni dal suo ultimo film, ed un po’ si sente. Apriamo, infatti, la recensione di TÁR premettendo che questa sarebbe potuta essere una delle pellicole rivelazioni del Festival di Venezia e, diciamo, che in parte lo è. Al tempo stesso, una regia forse fin troppo morbosa sulla protagonista, nonché un minutaggio eccessivo sintomo più di un’incapacità nel rinunciare al superfluo che al bisogno di raccontare per davvero, fanno di TÁR un film con una sublime interprete e con una serie di temi che danno degli spunti davvero interessanti, ma che rischia di diventare proibitivo e pedante per il pubblico generalista.
Sicuramente la cornice veneziana è quella che meglio si addice ad una pellicola del genere, al tempo stesso però è ovvio che dobbiamo fare i conti con il grande schermo e il grande pubblico, non solo con la componente critica, soprattutto quando anche quest’ultima non viene completamente soddisfatta!
Un po’ come White Noise, anche TÁR sembra essere diviso in due parti: nella prima abbiamo la vita della prestigiosa direttrice d’orchestra Lydia Tár, grande esperta e compositrice musicale rinomata in tutto il mondo, simbolo ed icona femminista all’interno di un mondo e ruolo che sembra essere dominato dalla componente maschile; dall’altra parte quasi un thriller che segna il secondo volto della medaglia e che, quando si tratta di errori, spesso quelli più primordiali, il genere conta ben poco.
In effetti è interessante come Field porti avanti il discorso legato proprio sul genere. Lydia è una donna che veste il ruolo di un uomo; o meglio, il ruolo che spesso e volentieri viene attribuito ad un uomo. Al tempo stesso, però, gode del rispetto e della stima che si potrebbe rivolgere proprio ad un uomo. La sua aurea è potente, sicura ed autoritaria. Poter lavorare con lei è un privilegio, anche se si tratta di farsi sanguinare le mani. Inoltre, è un’abile pianista, compositrice ed insegnante che cerca di portare il livello della conversazione sempre di un grado più in sù, senza mai ridurre il tutto ad una componente di genere o etnica o sessuale o religiosa.
La pellicola, non a caso, si muove – soprattutto nella prima parte, quella più interessante – su tutta una serie di dibatti molto caldi nei “salotti” dei nostri giorni, ovvero i social, ma cerca di farlo in ambienti quali talk show, lezioni accademiche e prove orchestrali, spesso dando l’illusione di assistere ad un vero e proprio dibattito e non ad un qualcosa di più costruito all’interno di un film.
Non solo una questione di genere
Il film si apre proprio con un lungo dibattito sulle parole “direttore” e “direttrice”, domandosi proprio dell’importanza delle parole, delle nuove terminologie e dello sdoganare il concetto di lavoro da uomini e lavoro da donne. Al tempo stesso, però, porta avanti non solo il rovescio della medaglia e, quindi, l’esasperazione e l’estremismo a cui alcuni di questi discorsi possono arrivare (come il non poter apprezzare dalla generazioni attuali la musica di Bach o Beethoven perché musica fatta da uomini etero bianchi cisgender, perdendo il valore della stessa composizione al di là da chi l’ha composta) ma anche come tutto questo possa facilmente diventare un’arma a doppio taglio, soprattutto se non si sa ben padroneggiare la situazione. E questo la nostra protagonista lo scoprirà presto a sue spese.
Da una parte sembra chiaro che l’intento di Field sia quello di far riflettere che perfino le buone intenzioni, i necessari discorsi sull’evoluzione del mondo, ampliamento del linguaggio più inclusivo possibile e comprensione di una rappresentazione più vasta e al passo con i tempi, possono essere mal interpretate; o peggio, posso prendere una deriva tossica. Una deriva che non fa altro che sposare lo stesso “male” che si professa di combattere.
Questo si evince proprio attraverso il confronto generazionale tra la stessa Lydia e i suoi studenti. Sebbene Lydia faccia proprio parte di quella classe di minoranza, in quanto donna lesbica ebrea, al tempo stesso i suoi anni creano comunque una distanza non di poco conto fra sé ed una generazione che sente l’esigenza di uccidere il maestro e creare dei nuovi miti.
Una generazione con nuovi tipi di fruizioni, stimoli e bisogni. È importante però ricordare che l’evoluzione, il cambiamento, passa da un’azione d’origine. Indubbiamente la necessità di un’evoluzione musicale, che possa partire dalla sperimentazione passando per l’uso meno canoniche delle strutture del passato, è sacrosanta, come in tutto, ma prima di poter infrangere una regola questa va conosciuta. Non basta liquidare Sebastian Bach con il suo orientamento sessuale o identità di genere. L’arte dovrebbe andare ben oltre questo e la riflessione artistica che porta avanti Field da questo punto di vista è provocatoria e assai intelligente, per quanto spigolosa. Non è un caso se usa un personaggio in bilico proprio come quello di Lydia.
Potremmo definire Lydia Tár un po’ come una doppia privilegiata: da una parte ha il potere della minoranza, venendo designata come un’icona, un modello da seguire; dall’altra parte però la sua influenza è di stampo maschile. Lei gioca al gioco della convenienza. Non infrange nessuna regola ma, anzi, abusa quasi di quel potere, finendo per restarne soggiogata.
Lo scandalo me too – come del resto una grande serie TV come The Morning Show ci ha mostrato – nasce non solo da una denuncia femminile nei confronti del sistema lavorativo maschile basato (in alcuni casi) sull’abuso del proprio potere, ma anche da una denuncia femminile nei confronti di quelle “stesse sorelle” che hanno da sempre fatto quello stesso gioco per convenienza, fingendo di non vedere, non sentire, non parlare.
Lydia Tár, volente o nolente, e qui entra in gioco la componente più misteriosa, per così dire, della pellicola, è vittima e carnefice proprio di questa situazione. E quello che a tutti gli effetti si preannunciava essere una pellicola su un modello da inseguire e seguire, diventa improvvisamente la discesa nel personale inferno di una donna che, di fronte alle gelosie, frustrazioni, vendette ed ingiustizie, siamo tutti uguali, al di là del nostro genere di appartenenza.
Chi troppo vuole…
Continuando la recensione di Tár bisogna anche parlare di un’altra fondamentale tematica che si ricollega al discorso fatto nei paragrafi precedenti: il potere.
Esattamente come l’arte è al servizio di tutto ed è di tutti, il potere è qualcosa che coinvolge – e a volte corrompe – tutti a prescindere dal proprio genere. Sicuramente Lydia lo prova sulla sua pelle, restando appunto coinvolta da quelli che possono essere le conseguenze nel dover gestire un potere grande come quello di cui viene investita.
Certo, verrebbe da chiedersi dove sia davvero il problema, o meglio cosa Field ci stia raccontando per davvero. Fermo restando che non siamo di certo abituati ad una rappresentazione, per non parlare del reale, di una donna con una carica gerarchica e un potere di questo tipo, Lydia è incapace a gestire quel tipo di potere o, piuttosto, come si diceva prima, non c’è molta differenza tra uomo e donna quando si tratta di decidere per gli altri? Quando hai in mano lo scettro che ti permette di metterti al di sopra di tutto e tutti?
Forse la risposta è un po’ nel mezzo. Forse Field non vuole davvero prendere posizione e un po’ furbescamente finge di restare nel mezzo.
Quel che è certo è che nel film mette in scena le conseguenze nell’incapacità di sapere gestire tutto questo, soprattutto quando si tratta di una posizione di prestigio sofferta e che può portare all’ossessione, come nel caso di Lydia nei confronti della musica. Non dimentichiamoci l’importanza della componente musicale in questo film, visto che ne è un po’ il fulcro, ma anche come i buoni intenti artistici vengano un po’ sacrificati per qualcosa di più… materiale.
In sostanza Field smantella la sua icona, il suo modello di femminismo, la sua donna lavoratrice, lesbica e mamma. La ragazza fatta da sola e che ha messo la sua fortuna al servizio di altre aspiranti direttrici, ma che poi cambia così come cambiano i tempi. La rende un’arrivista, una meschina, una predatrice. Una disposta a tutto unicamente per il suo tornaconto personale o bisogni primordiali, intimi. Un’egoista, un’opportunista che, improvvisamente, si ritroverà senza neanche la forza della sua unica arma di difesa: il talento.
Lydia Tár passa dall’essere carnefice a vittima di se stessa e della stessa società che l’ha idolatrata.
Una questione di tempo
Cate Blanchett, non c’è forse neanche più bisogno di dirlo, è assolutamente straordinaria. Direttamente baciata dalla luce delle stesse divinità, ancora una volta ci da prova che perfino se recitasse la parte del cespuglio nel recital della scuola elementare, riuscirebbe a darci una perfomance da Oscar. Senza considerare il grande lavoro di preparazione per rendere credile i suoi movimenti tanto al pianoforte quanto come direttrice d’orchestra, lasciando trasparire la passione, l’intensità, la forza e l’intenzione, nonché la conoscenza che ci vuole in un lavoro del genere.
Questo, però, non basta per salvare il film dal suo difetto più grande: il tempo. Già, ironico come in un film con protagonista una direttrice d’orchestra e dove la musica è elemento importante, il tempo è un nemico spietato e feroce. Il tempo che Todd Field non è riuscito a bilanciare, facendo smarrire lo spettatore nei meandri di un temporeggiare che toglie spazio alle riflessioni, ai cambiamenti, al dramma, ai risvolti finali.
Il tutto è ambientato in sole tre settimane, un lasso di tempo molto circoscritto dove Lydia Tár ci viene già presentata come un’immensa icona, ma in poco si ritrova trasportata sull’orlo del precipizio, ed il temporeggiare intermedio non fa altro che togliere l’incredibile stato di pathos che, invece, sarebbe stato necessario e fondamentale per questo momento.
Il less is more è una lezione fondamentale, in particolar modo quando si incentra il tutto su un unico personaggio, in un tempo così ristretto e con una regia morbosa e chiusa su quello stesso personaggio. Ogni minuto è fondamentale e votato ai fini della narrazione. Questo non vuol dire non potersi prendere o concedersi un po’ di spazio, ma di certo questo “spazio” non deve andare a sacrificare il focus stesso dell’opera, distraendo e togliendo l’attenzione dal fine ultimo.
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Todd Field confeziona con TÁR una pellicola intelligente, provocatoria e che riflette sulle contraddizioni del nostro tempo legate al genere, alle inclusioni e che, inevitabilmente, coinvolgono anche i campi dove non dovrebbe esserci sesso o colore della pelle o religione a interferire. Una protagonista sublime ma anche sfaccettata, contraddittoria e volubile, ma che purtroppo non sempre è sufficiente per una pellicola che si prende fin troppo tempo, allungando esasperatamente un racconto che per essere compiuto necessitava di molto meno.
- Cate Blanchett, unico vero personaggio sulla scena, sempre presente e in un'ennesima performance che potrebbe tranquillamente essere degna di un Oscar
- Gli spunti di riflessione legati alla questione linguistiche, a quelle di genere ma anche al capovolgimento della medaglia dettato dagli estremismi, nonché alla separazione di opera dall'autore
- Le musiche eccezionali di Hildur Guðnadóttir
- Poco chiaro nell'intento finale su cosa volersi soffermare per davvero
- L'eccessiva lunghezza della pellicola che soffoca la narrazione e attenzione dello spettatore