White Noise, la recensione: un’apertura tagliente e brillante per il Festival di Venezia

recensione di White Noise

Un’apertura così interessante, brillante e anche pungente come quella di quest’anno, al Festival di Venezia non si vedeva da un po’. E voglio iniziare proprio in questo modo la recensione di White Noise, il film di Noah Baumbach che torna al Lido, dopo il meraviglioso A Marriage Story, con un adattamento letterario.

Il testo originale, infatti, è di Don DeLillo e lo spirito dell’opera, e dello stile stesso dell’autore statunitense, viene mantenuto tutto. DeLillo ha sempre scritto testi critici nei confronti della società contemporanea americana, fondata sul complotto, la paranoia, sulla suggestione ed isteria collettiva. Aggiungendo un pizzico più malinconico e agrodolce, tipico invece di un regista e sceneggiatore come Baumbach, il film diventa un mix davvero interessante che non può fare a meno di sorprendere, anche se forse lascerà un po’ perplessi inizialmente.

White Noise sembra quasi una piece in due atti dal mood grottesco e familiare, che se da un lato ci mostra la quotidianità della famiglia, una famiglia borghese e al tempo stesso antiborghese; dall’altra parte cerca completamente di smantellarla. I personaggi si muovono come se fossero sospesi all’interno di una bolla, decisi e al tempo stesso fragili. Talmente tanto vittime delle nevrosi del loro tempo, da soccombere ad esse in un travolgente climax paradossale.

Noah Baumbach si muove sulla scia della contraddizione, dai temi ai personaggi, quasi in modo caricaturiale ma solo per sottolineare ancora di più quelli che sono alcuni dei paradossi del nostro tempo. Da una parte ossessionati dalla felicità, dal benessere, dall’ostentazione; dall’altra parte incapaci davvero a godersi i frutti del proprio lavoro, restando completamente annichiliti di fronte alla previsione della morte.

La morte, fine ultimo dell’essere umano. La morte, buco nero dell’esistenza. La morte, inaspettata e spietata.

Sarcasmo e paradosso sono le due parole chiave per poter veramente comprendere questo film. Indubbiamente sopra le righe, a volte perfino troppo sospeso rischiando di confondere un po’ lo spettatore, per poi tornare nuovamente in carreggiata. Travolgente, ispirato e divertente.

A volte sembra quasi che le battute siano artificiali, i personaggi cartonati, gli scenari plastici, quasi come se fosse tutto una recita. Il che viene amplificato dalla regia e fotografia meta, uno dei tratti tipici della regia di Baumbach. In realtà c’è una funzione narrativa a questo: la difesa. I personaggi sono tutti sulla difensiva, alzano tutti delle barriere dall’alto dei loro sorrisi, della loro falsa perfezione menefreghista come se fossero i protagonisti di un film francese in bianco e nero. Le loro citazioni colte sono scudi, scudi contro gli aspetti più crudi, ed inevitabili, della vita. Non a caso, quando abbassano di poco quelle barriere, la torre cade. Rovinosamente.

La famiglia: “culla della disinformazione mondiale”

Andando avanti in questa recensione di White Noise, chi sono i protagonisti dipinti da Noah Baumbach?

Ambientato in un bucolico college del Midwest degli Stati Uniti, White Noise racconta della famiglia Gladney: Jack (Adam Driver), professore universitario specializzato in atipici studi approfonditi sulla figura di Adolf Hitler, sebbene non sia capace a parlare il tedesco; Babette (Greta Gerwing), istruttrice di posturale per anziani che porta avanti la casa col sorriso e qualche segreto; e i loro quattro figli, avuti tutti, tranne l’ultimo, dai loro precedenti matrimoni.

Per una buona prima parte del film, Baumbach ci fa una cronaca della quotidianità della famiglia, divisa tra casa e scuola, mescolando un po’ di satira a dolcezza. Piccoli drammi della vita di tutti giorni, perle di felicità e paura in cui è facile inciampare una volta ogni tanto nella nostra esistenza. Del resto siamo umani.

Nella normalità, però, c’è sempre l’anomalia che funge da “la” per una serie di eventi che serviranno da devastante reazione a catena non solo per i Gladney, ma per tutta la comunità, mettendoci di fronte al paradosso e ipocrisia dell’essere umano. Alla sua incapacità di pensare prima di parlare, di fasciarsi la testa prima di rompersela o informarsi davvero prima di intervenire.

Baumbach, un po’ come fa DeLillo, porta avanti discorsi intellettualoidi di gente completamente dissociata dalla realtà o, più semplicemente, incapaci di poterla affrontare, preferendo nascondere la testa sottoterra come uno struzzo o, in questo caso, in un bel piatto di pollo fritto con i peperoni.

Il caos viene scatenato a causa di un incidente tra un camion e un treno carico di materiali chimici. Nel bel mezzo di una fusione tra cattedre dove Adam Driver e Don Cheadle si sfidano amichevolmente a colpi di Hitler ed Elvis, fondendo le due icone come se fosse l’una il volto dell’altra, in quella che è una delle sequenze più potenti di tutta la pellicola, lo scontro tra i due mezzi da origine alla formazione di una nuvola tossica nella zona in cui vivono Jack e Babette. Per quanto i figli sembrano essere gli unici a rendersi conto della gravità della situazione, i due genitori restano quasi indifferenti all’accaduto, come se fosse un temporale passeggero.

Ma l’inevitabile evacuazione, rende necessaria la presa di coscienza, che va però a scontrarsi con l’isterismo di massa di un sobborgo che viene completamente messo in subbuglio. Vi ricordate le apocalittiche scene nei supermercati ad inizio pandemia? Bene, la situazione è assolutamente similare. E ben presto tutto questo si trasforma in rabbia, frustrazione, violenza. Una società ingannata da uno stato bugiardo che trama il complotto, la loro fine, la resa del raziocinio. Ma quello sembra non essere pervenuto da ormai troppo tempo.

Qual è l’effetto di tutto ciò su Jack e Babette? Paura. Ma una paura ben più radicata che diventa quasi una gara a legittimare chi ha più diritto ad avere paura. L’evento crea una profonda reazione di shock e paura della morte in Jack, già presente all’interno di Babette. Chi dovrebbe morire per primo? Chi restare da solo? E può la paura della morte paralizzarci di fronte agli anni, i decenni, che restano ancora e ancora da vivere? No. Eppure la paranoia umana può portare a tutto, perfino alla necessità di una pillola che possa far sparire la paura di morire.

Meglio morire oggi che vivere domani

Cosa cerca di raccontarci Noah Baumbach con il suo White Noise? Se nella prima parte di film rappresenta la positività della luce quotidiana, quella di una famiglia non perfetta e spesso ipocrita, ma comunque unita a modo suo, intima, rappresentando quasi il concetto di “casa”; nella seconda parte mette in scena la parte più marcia ed oscura di questa luce.

Quella paura che tanto blocca Babette, intima e profonda, a tal punto da portarla a gesti estremi pur di liberarsi dalle catene della paranoia, crea un conflitto molto intenso che va a ripercuotersi su se stessa e su gli altri. Paura che, in fondo, proviamo tutti ma non ne parliamo mai. Proviamo a non pensarci mai. Si, perché se dovessimo solo concentrarci un attimo di più sul fatto che oggi ci siamo ma domani potremmo non esserci, su quanto la morte sia imprevedibile e inaspettata, probabilmente anche noi disperatamente cercheremmo delle pillole “capaci” di accettare la condizione primaria dell’essere umano: finire.

Ed è molto particolare il modo in cui Don DeLillo prima e Baumbach dopo, uniscano questa paura in fondo primordiale e collettiva, con un bisogno molto più consumistico: il medicinale fonte di soluzione da qualsiasi problema. La dipendenza. Nonché la suggestione che una pillola possa eliminare qualsiasi cosa o portarti in un’altra dimensione.

La potenza di White Noise, e il modo in cui Baumbach lo mette in scena, sta proprio nelle sue tematiche che si intrecciano, già figlie del secolo scorso: dal consumismo alla saturazione mediatica, dalle cospirazioni all’intelletualismo da quattro soldi, passando per la distruzione di qualsiasi altro valore.

Il “rumore bianco” è infatti un insieme di input che martella costantemente l’essere umano, lasciandolo cadere in una spirare di nevrosi, isteria e paranoia. Costantemente braccati, sottoattacco, pronti a reagire se non con la violenza. Bisognosi di un effetto placebo per poter sopravvivere o, altrimenti, preferire la morte alla consapevolezza che prima o poi quest’ultima sopraggiungerà.

Squadra che vince non si cambia

Avvicinandosi alla conclusione della recensione di White Noise, va detto che adattamento e regia non sono gli unici punti forti questa pellicola. Indubbiamente l’apporto di Adam Driver e Greta Gerwing, attori collaudati nel cinema del regista, è fondamentale.

Adam Driver è alle prese con uno dei suoi ruoli più diversi e riusciti della sua carriera. Un personaggio capace quasi di sdoppiarsi, che dalla prima alla seconda parte della pellicola si capovolge completamente.

L’ambiguità della sua figura viene messa ancora di più in risalto dall’atipica materia di cui è grande maestro, per poi cedere sotto il peso delle pressioni, delle paure, delle fobie. Anche lui, dopo essere sopraelevato rispetto agli altri poveri borghesi, finisce con l’essere il più miserevole tra tutti, lasciandosi manipolare proprio da quella teoria del complotto per poi rendersi conto che la sua bolla di perfezione altro non è se non una bolla, anche piuttosto fragile.

Greta Gerwing si misura con un personaggio dolce e malinconico, ma al tempo stesso tossico. Consumato da se stessa. Un personaggio volubile, fragile.

Baumbach sovverte l’archetipo dell’angelo del focolare che inizialmente sembra rappresentare Babette, per darci una figura decisamente più disturbata, molto più al limite e priva di inibizioni per il suo crescente bisogno personale. La Gerwing, dopo diversi anni d’assenza come attrice per concentrarsi più sulla sua carriera da regista, dimostra di essere più che all’altezza dell’incarico, creando una perfetta alchimia con Driver.

Il tocco satirico, ironico e a volte tragico del film, lo rende dinamico, accattivante e tagliente. Chiede allo spettatore di mettersi anche un po’ sotto esame, di ritrovarsi in quei personaggi, comprendendo le contraddizioni del proprio essere, nonché quelle della propria epoca. Lo spinge anche a non cedere a facili paranoie o suggestioni. Si, la morte c’è e sempre ci sarà e non esiste cura in questo. Ma che senso ha sprecare la propria esistenza, forse anche la propria felicità, nella paura di qualcosa che, in un modo o nell’altro, avverrà comunque?

White Noise arriverà entro la fine dell’anno su Netflix

 

 

 

83
White Noise
Recensione di Gabriella Giliberti

La critica sociale di Don DeLillo si unisce alle atmosfere malinconiche e agrodolci di Noah Baumbach dando vita ad una pellicola sarcastica e raffinata basata sui paradossi, sui contrasti, sull'incapacità di essere davvero felici e, banalmente, fasciarci la testa prima di rompercela. Schiavi delle nostre nevrosi, suggestionabili, manipolabili e fragili. Un perfetto quadro sul nostro tempo, che da una parte sorprende, dall'altra lascia perplessi, ma afferma più che mai la volubilità dell'essere umano.

ME GUSTA
  • Il perfetto bilanciamento tra lo spirito dell'opera di DeLillo e il marcato stile di Baumbach
  • La regia metacinematografica, suggestiva e sospesa nel tempo
  • Adam Driver e Greta Gerwing coppia perfetta, divertenti e appassionati
FAIL
  • Il cambio di mood della seconda parte potrebbe non essere apprezzato da un pubblico più generalista
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