Nell’anno che ha sconvolto il pianeta, l’immagine dell’America giunta da oltreoceano è stata quella di un Paese di nuovo vittima di quella tempesta sociale deflagrata tra gli anni 60 e gli anni 70 legata alle condizioni degli afroamericani. Un’impressione più nostra, che guardiamo da fuori, rispetto a chi in America ci vive e che probabilmente ci direbbe che quella tempesta non si è mai sopita realmente (qualche sospetto anche da noi già c’era in realtà, specialmente dal 2017). Nell’anno che ha sconvolto il pianeta, dicevamo, il cinema americano ha presentato diversi film in cui ha riportato il focus su quelle tematiche. Una risposta hollywoodiana che corre però sempre il rischio di un riassorbimento della denuncia nei canoni del sistema denunciato (chi di più chi meno, ci mancherebbe).
Ne la recensione di Judas and the Black Messiah (candidato a 6 premio Oscar) vi parliamo di quella che rispetto alle altre è la pellicola che più di tutte si allontana dal rischio, denunciandolo, anzi, apertamente attraverso la storia e, soprattutto, la figura e l’uomo che racconta. Non solo, è anche quella più politicamente attuale; precisa e concentrata nello studio e molto intelligente nell’esposizione.
Un punto di congiunzione tra passato e presente: raccontare la vicenda di colui che tentò di svegliare all’epoca l’America, addormentata durante l’incendio degli anni 60, per tentare di nuovo ora, che le fiamme sono tornate a divampare. Sperando che nessuno possa narcotizzarla ancora, oggi, nell’anno che ha sconvolto il pianeta.
Shaka King, avvalendosi della penna di Will Berson e contando sul lavoro di produzione di Ryan Coogler, tra tutte sceglie la storia di Fred Hampton (presente tra l’altro già nel film di Sorkin, sempre in corsa Oscar), il Messia Nero col volto dello splendido Daniel Kaluuya. La sceglie perché la figura del giovanissimo leader della Pantere Nere fu prima di tutto quella di un visionario politico, un precursore dei tempi, un giovanissimo con la testa di un veterano, ma anche perché il suo racconto passa dalla presenza di Bill O’Neal.
Un delinquente di bassa lega, confuso e sperso come tanti altri della sua età, incastrato più che assoldato dall’FBI per infiltrarsi tra le Pantere Nere, interpretato da Lakeith Stanfield, amico e già collaboratore di King. Lui è Giuda, la figura più drammatica, come tradizione vuole: il martire fuori luogo, recalcitrante, fedele, ma disilluso. L’uomo della debolezza, una virtù nella fattispecie e una condanna poi, perché conduce alla consapevolezza. Colui che ha visto la rivoluzione, ne ha capito la giustizia, ma anche l’impraticabilità in un mondo in cui è riuscito a vivere per anni solo coprendosi gli occhi spaventati dietro un cappello alla Dick Tracy.
Può un pig essere anche una Pantera Nera? Uno degli interrogativi più importanti di Judas and the Black Messiah.
Judas and the Black Messiah: Revolution in the only solution
All’indomani della scomparsa dei suoi leader politici e spirituali più importanti, la comunità afroamericana vive un momento di forte smarrimento, diffidenza e divisione interna. Una realtà nuova in cui i vecchi ideali, seppur ancora potenti nell’animo dei fratelli e delle sorelle, non riescono a trovare una collocazione reale, un esponente fisico o, più semplicemente, un loro posto nel mondo.
In questo vuoto di potere si colloca Fred Hampton, leader 21enne delle Pantere Nere e primo nome sulla lista di J. Edgar Hoover, qui interpretato da un quasi irriconoscibile Martin Sheen (probabilmente meglio di come fece DiCaprio nel film di Eastwood), creatore del soprannome “Black Messiah”. Ma cosa può rendere un così giovane ragazzo più pericoloso addirittura della minaccia comunista (per dirne una)? La sua visione del futuro.
Hampton è un leader che parla di capitalismo e socialismo e non di lotta di razza; che intende unire le persone per il tradimento subito dalla loro società e non per la loro storia o cultura e che trova nel classismo imperante e nella mentalità fascista i veri nemici da combattere. Combattere opponendo loro un sistema diverso da quello in cui germogliano invece che solo un nuovo modo di stare nel sistema (il vecchio discorso sul riformismo). Un combattere vissuto come motivo di vita, ma solo se perpetrato attraverso la lotta pacifica. Combattere per la costruzione di un simbolo, perché il simbolo unisce la gente, al contrario delle pistole. Le pistole non fanno la rivoluzione e la rivoluzione è l’unica soluzione possibile.
Accanto a lui, ma dall’altra parte, c’è la società contro cui combatte nella persona di Bill (Judas) arruolato dalle mani curate di un plumbeo agente dell’FBI (un bravissimo Jesse Plemons), il vecchio Sam che “è anche a favore dei diritti civili, ma non può tollerare il terrorismo”. Quello violento, ovviamente, cioè quello delle Pantere Nere quando trovano una spia o dei Crowns quando qualcuno fa irruzione nel loro territorio; riscoprendosi più tollerante per quello non violento, proprio del governo americano, che nel suo operato si attiene solo a tormentare le madri rimaste senza figli, diffamare la memoria delle vittime collaterali e a compiere gli stretti “omicidi giustificabili“.
Uomini e simboli
Judas and the Black Messiah è un film che ha mille significati e mille motivi per essere considerato un film importante. È il primo titolo totalmente afroamericano candidato all’Oscar come Miglior Film. E’ un film politico, ma anche di guerra. E’ un film che funziona splendidamente nella sua ostinazione nel portare una versione quasi documentaristica degli eventi narrati, lavorando benissimo con i tempi cinematografici e con il linguaggio. Un film con tanti discorsi significativi e importanti, giochi di parole, metafore anticipatorie e che regala immagini come quella di un uomo che decide di sorridere di fronte ad un fratello che gli punta una pistola. Un film senza protagonisti per scelta, ma che sul talento dei suoi uomini vive. Due uomini non banali, che si sono sfiorati in Scappa – Get Out di Jordan Peele e che rappresentano al momento due dei nomi più importanti del cinema afroamericano.
Ma al netto di una grande importanza riservata al forbito trattato politico, contestuale nella ricostruzione del pensiero del partito all’epoca e poi universale nel dibattito di alcuni massimi interrogativi della materia, la pellicola affianca il racconto umano. E qui perde alcune delle sue certezze. Gli autori decidono di poggiarsi su dei meccanismi classici e un po’ accartocciati, giocati sui dubbi esistenziali e morali dei due uomini, uno diviso tra l’amore per una famiglia e l’amore per la Causa e un altro preda dell’eterno dilemma di chi deve tradire per sopravvivere, ma deve non tradire per avere un’anima.
Le cose che pesano però di più nella non perfetta riuscita della pellicola sono la mancanza della potenza del rapporto tra i due non protagonisti, che nella convenzionalità vedono naufragare la capacità di essere all’altezza delle figure religiose da cui ereditano gli epiteti, e, soprattutto, il non riuscire a trasmettere un manifesto culturale forte e riconoscibile, come le premesse e lo sviluppo potevano lasciar presagire.
In conclusione de la recensione di Judas and the Black Messiah diciamo che ci troviamo di fronte ad un film importante perché nato dal desiderio di dare una dignità ribadita alla lotta delle Pantere Nere, scegliendo una figura che ha un senso politico logico, oltre che a quello meramente simbolico di martire della causa. Un ruggito del cinema black che vuole essere voce fuori dal coro, ma che vuole anche parlare con intelligenza, pur presentando delle debolezze nella struttura, soprattutto quando si tratta di ottimizzare l’indicizzazione dei propri decibel.
Judas and the Black Messiah è un film politico attuale e intelligente, in grado di restituire dignità alla lotta delle Pantere Nere e raccontare fedelmente la vicenda di Fred Hampton, figura complessa e protagonista perfetto per il senso della pellicola tutta. Shaka King si affida a due attori importanti che giustificano la scelta con delle ottime prove, ma il film pecca nella costruzione del rapporto tra i due, nel loro approfondimento psicologico e, soprattutto, nella canalizzazione della considerevole potenza argomentativa accumulata durante i minuti.
- La trattazione dei temi politici è attuale e intelligente.
- Daniel Kaluuya regala una prova di ottimo livello.
- La vicenda umana di Hampton è fedelmente ricostruita.
- Le caratteristiche produttive della pellicola la elevano ad un'importanza considerevole per il cinema black.
- La scrittura pecca nell'esaltazione del rapporto tra i due non protagonisti.
- La costruzione psicologica dei personaggi non è sempre all'altezza.
- Non riesce a catalizzare al meglio la potenza del suo racconto politico.