Se dici The King, probabilmente qualcuno pensa ad Elvis Presley. Magari qualcuno a Michael Jackson. Qui dentro, forse, a Jack Kirby. E ci sarà chi dirà “O Rei” citando Pelé. Ma se dici Kong… beh, di Kong ce n’è uno solo: King Kong.
Nessuno se ne esca con Donkey Kong, perché anche se simpatico, tutto sommato potrebbe essere solo un suo secondo cuginetto.
King Kong è da sempre uno dei mostri per eccellenza del cinema mondiale, uno dei più antichi e certamente uno dei più longevi e di successo.
Lo scimmione pantagruelico esercita su di noi un fascino diabolico da sempre, ci ricorda le nostre radici bestiali con i suoi desideri e le sue pulsioni, e al tempo stesso simboleggia il tentativo di “domare la bestia” che ci portiamo dentro, e che spesso ci ricorda quanto siamo brutti e cattivi.
La sua storia inizia del 1933, ed è una di quelle storie che meritano di essere raccontate.
Più che la rivisitazione moderna del mito de La Bella e La Bestia, all’inizio KK si configurava come un vero e proprio documentario.
Anzi, per essere più precisi poteva essere l’antesignano dei mockumentary.
Non tutti sanno infatti che i due registi del leggendario KK del 1933 erano prima di tutto dei grandi viaggiatori e amanti delle avventure, nonché dei pionieri della cinepresa “portata in viaggio”. Nessuno dica “travel vlogger”, per favore!
Quello che è certo è che Merian C. Cooper e Ernest Schoedsack sono stati tra i primi nel mondo dello spettacolo a capire che il mondo delle “riprese dal vero” affascinava la massa degli spettatori, e all’interno di quelle riprese si potevano inserire delle trame fittizie per aumentare il “drama-factor”.
E se ti dicessi che la genesi di King Kong la dobbiamo al drago di Komodo?
Strano, vero? Eppure è un fatto quasi certo più che un bell’aneddoto.
Cooper era un ambientalista nato nel XIX secolo, il che significa che amava la natura e gli animali ma non disdegnava di cacciarli, e spesso pure di imbalsamarli. Beh, all’epoca gli standard erano quelli.
Lui e il suo amico William Douglas Burden andarono sull’isola di Komodo, in Indonesia, con l’intento di diventare i primi occidentali a catturarne (o ammazzarne, certo) uno.
Certo i draghi di Komodo non erano certo degli adorabili buontemponi.
Capaci di abbattere intere piante con il loro semplice passaggio e mangiarsi un bufalo in pochi minuti, non erano proprio la preda più semplice da cacciare con i mezzi del primo Novecento.
Con i due uomini, veri e propri personaggi da film, volò anche la moglie di Burden, di nome Catherine, che pretese di andare nel fitto della foresta con loro, armata di tutto punto. E indovina un po’ – fu quella a trovarsi faccia a faccia con un drago per prima.
La spedizione riuscì a portarsi a casa ben tre draghi di Komodo, e un’infinità di fauna e flora da esporre in vari musei e nello zoo del Bronx.
Fu lì che Cooper vide, una volta che i draghi finirono impagliati, un imponente gorilla che aveva fatto la stessa fine: viaggio di sola andata sul tavolo del tassidermista.
Il nostro futuro regista rimase così impressionato da quella gigantesca bestia da ritenerla molto più interessante dei brutti (mi perdonino) draghi di Komodo come protagonista dell’opera “documentaria” che andava meditando da anni.
Purtroppo, la Grande Depressione non gli rese le cose agevoli: la crisi economica disastrosa che aveva investito gli Stati Uniti tra gli anni Venti e i Trenta del secolo scorso aveva reso anche i produttori degli Studios meno propensi al rischio.
Il racconto di una “gitarella nella giungla” non esercitava appeal, così nel frattempo Cooper ripiegò su alcuni lavori per la leggendaria RKO, tra cui un film sugli immarcescibili (già allora) dinosauri, dal titolo “Creation”.
Indovina un po’, la storia era quella di un’avventura su un’isola tropicale in cui della gente trovava dei dinosauri sopravvissuti all’estinzione.
Qui avvenne l’incontro del destino: uno sveglio e creativo animatore, chiamato Willis O’ Brien, stava lavorando alla preparazione di una favolosa e rivoluzionaria stop motion.
Cooper video il lavoro del professionista, poi guardò il copione e…. Capì che era fatica sprecata: quella storia faceva schifo, non aveva azione, era una noia mortale.
Riuscì a coinvolgere nel suo progetto lo scrittore Edgar Wallace (morto poi durante la lavorazione) e aggiungere alla sceneggiatura un altro paio di persone, per sfruttare i venti minuti completati di “Creation”, principalmente effetti speciali, per convincere la RKO a cambiare tutto.
E alla RKO trovò… David O. Selznick, l’uomo che in futuro avrebbe messo mano a Via Col Vento. Lui capì subito le potenzialità della storia della storia, e con gli occhi a forma di dollaro diede il via libera al progetto.
Il resto è storia: esotismo, avventura, romanticismo, azione, dramma, metafore, allusioni sessuali, mostri giganti in mezzo alla città, grattacieli scalati e… aerei che abbattono la Bestia, non prima di avergli fatto catturare la Bella e portarla verso un impossibile “matrimonio” ad alta quota.
Una formula potente, imitatissima, che ancora oggi funziona alla grande anche con minime variazioni. Un vero e proprio mito moderno.
Ecco perché King Kong rimane a distanza di quasi un secolo un elemento fondante del cinema e dell’immaginario.
Dopo il primo film, un grande successo al botteghino, uno dei primi blockbuster della storia, arrivò l’instant-sequel “Son of Kong” con gli stessi protagonisti dell’originale, il regista Carl Denham e Captain Englehorn.
Il loro ritorno a Skull Island, dove scoprono un piccolo parente albino di Kong, fu operò di minor successo, minore anche delle riedizioni successive dell’originale (tornato nei cinema a cadenza quinquennale).
Dobbiamo attendere il 1962 per qualcosa di inaspettato e spettacolare: la Toho, che da un decennio monopolizzava l’universo dei mostri al cinema con Godzilla, decise di stringere un accordo con la RKO per usare King Kong.
Nonostante l’apparente “fattore weird” del crossover, il film fu un successone e rimane uno dei film di Godzilla che ha staccato il maggior numero di biglietti in Giappone: oltre 11 milioni!
Non poteva quindi che arrivare un “bis” da parte della Toho.
Stavolta Kong se ne va per conto suo e si scontra con la sua controparte robotica, Mechani-Kong. Questo film era praticamente lo spin off della serie tv andata in onda a inizio anni ‘60.
Arriva il 1976 e qualcuno pensa che sia il momento di riportare lo scimmione nei suoi lidi più consoni: quello del dramma serio con grandi risvolti simbolici.
Quell’uomo è il mitico produttore Dino De Laurentiis, che con il genio degli effetti speciali Carlo Rambaldi riporta a Hollywood lo scettro del Re con un tocco di italianità, e lo butta sul World Trade Center al posto dell’Empire State Building ai tempi correnti (non negli anni ‘30)
Kong divide il palco con Jeff Bridges, Charles Grodin e una scintillante Jessica Lange.
Anche se oggi viene un po’ deriso perché non è invecchiato benissimo, si portò a casa un premio Oscar per gli effetti visivi e riscosse un ottimo successo di pubblico, nella top ten dei maggiori incassi dell’anno.
Dieci anni dopo, forse un po’ troppi, De Laurentiis ci riprova con il sequel diretto di “King Kong Lives”: il nostro scimmione, come nei migliori fotoromanzi, non è morto ma è rimasto in coma per la caduta dal grattacielo.
Una trasfusione (!) da parte di Lady Kong (!!) lo fa risvegliare (!!!) e i due scimmioni fanno fuga romantica procreando un konghino (!!!!).
Inutile dire che la memoria collettiva ha fatto un favore a questo film facendolo sparire dalla storia.
Arriva il 2005 e finalmente Peter Jackson, fresco reduce dal trionfo della Trilogia del Signore degli Anelli, riesce a dirigere per la Universal il progetto che cullava da decenni: rifare il suo film preferito di tutti i tempi. Indovina un po’ quale?
Un vero blockbuster d’altri tempi, un tripudio di CGI altalenante ma per l’epoca anche strabiliante nei migliori momenti, un Kong commovente e potentissimo interpretato da Andy Serkis, un film d’altri tempi realizzato con i mezzi contemporanei. Insomma, un filmone che vale un’intera carriera.
Successo, tre Oscar e ancora una volta Kong si conferma un King.
Quello del 2017 è invece un vero e proprio reboot: Skull Island prende vita negli anni ’70 con una serie di militari si ritrovano a fare i conti con il re del quartiere, ovvero il nostro scimmione preferito.
Tom Hiddleston, Brie Larson, Samuel L. Jackson, John Goodman e John C. Reilly fanno l’insalata per la portata principale scimmiesca, stavolta riprodotta con le movenze di Terry Notary, ex performer del Cirque du Soleil già reclutato per Planet of the Apes.
La cosa più figa è che il film, a cura della Legendary Entertainment, appartiene allo stesso universo del nuovo Godzilla cinematografico.
Il “MonsterVerse” si fa sempre più vicino, ed è inutile dire che attendiamo in gloria Godzilla vs. Kong previsto per il 2020.
In testa all’articolo: “All Hail the King!” di Jakub Rozalski