Proviamo ad analizzare perché, in un panorama in cui le storie ben scritte e l’open world vanno sempre meno d’accordo, Days Gone riesce a portare una ventata d’aria fresca.
Che Days Gone sia un titolo controverso lo si sapeva fin da prima che arrivasse davvero sul mercato, lo scorso 26 aprile. Ne avevo già parlato nella nostra anteprima e ne ho poi parlato nuovamente nella recensione del titolo (di seguito riportiamo il link, qualora ve la foste persa), per cui non mi soffermerò nuovamente sui pregiudizi e sull’errato tempismo che hanno, purtroppo, penalizzato i giudizi su un gioco davvero ben fatto.
Il titolo sviluppato da Sony Bend Studio in esclusiva per PlayStation 4 riesce però, più di tanti altri concorrenti incensati dalla critica, nel difficile intento di accostare a uno stile di gioco open world una narrazione riuscita e non banale. E questo era proprio l’obiettivo di John Garvin e del team, tanto che il game director Jeff Ross, in un’intervista rilasciata a GameSpot a inizio marzo, ha detto: «in Days Gone la trama è fortemente integrata con la natura open world del gioco, vogliamo che ci siano poche dissonanze tra i due elementi.»
Ma dove sta, quindi, il merito di Days Gone o, piuttosto, il problema di tanti altri giochi a mondo aperto? Prima di abbozzare una risposta – sempre che ce ne sia una – è meglio fare paio di considerazioni: videogiochi con una spiccata componente narrativa come il mai troppo celebrato The Last of Us di Naugty Dog, riescono a mantenere il ritmo nel raccontare una storia e a tratteggiarne bene i personaggi importanti perché non devono preoccuparsi anche di avere un open world denso e coerente.
Circoscrivere le aree di gioco permette inevitabilmente un miglior lavoro su narrazione e personaggi, circoscrivendone anche gli intrecci.
Rappresenta però anche una maglia stringente agli orizzonti di libertà che il videogioco, intrinsecamente, promette. Mi spiego meglio: quando ci mettiamo seduti a guardare una serie tv o un film, sappiamo che questa attività sarà totalmente passiva; quando invece ci mettiamo seduti col gamepad tra le mani, pretendiamo un intrattenimento attivo in virtù della natura interattiva del medium videoludico. Ergo, se si esagera troppo nel limitare le possibilità ludiche del giocatore, magari con troppe cut-scene (vedi Metal Gear Solid 4) si rischia di disattendere il tacito accordo tra gioco e giocatore.
Man mano che il progresso tecnologico ha permesso ai videogiochi di creare sempre più mondi vasti e densi di attività, è cresciuta anche la voglia da parte dei giocatori di poter vivere davvero questi mondi, attraverso l’avatar di turno. Tant’è che anche giochi che non si possono definire open world ormai vantano mappe e aree molto più vaste di quelle dei loro corrispettivi di dieci anni fa. Eppure in questo procedimento, in cui l’open world – che di per sé non è un genere – permea i più svariati generi (si pensi a Forza Horizon), pare difficile trovare un equilibrio per la componente narrativa.
Non è un caso che due degli open world più riusciti dei nostri tempi siano The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Dark Souls (dove è anche difficile parlare di open world in senso stretto, trattandosi di un virtuosissimo esempio di level design open map, con la più solida interconnessione tra le aree di gioco mai vista fino alla sua uscita), dove però non abbiamo praticamente narrazione esplicita, ma di lore.
Dall’altro lato abbiamo invece rarissimi casi di narrazione sublime veicolata da un gioco open world, come il recentissimo Red Dead Redemption 2 e prima The Witcher 3: Wild Hunt (dove comunque, personalmente, la trovo molto diluita pur restando sempre di alto profilo). Tra questi due estremi c’è un mare magnum di titoli che non brillano né dal lato narrativo, né dal lato open world (dove risultano per lo più ripetitivi, fin troppo prevedibili e in preda a un ossessivo riciclo degli asset dovuto alla produzione in massa di opere che richiederebbero molto più tempo di quello che il mercato concede loro).
È il limbo delle produzioni Ubisoft, ormai tutte troppo uguali tra loro, con un’aquila che si trasforma in un drone all’occorrenza, con una delle serie videoludiche dal più alto potenziale di sempre, Assassin’s Creed, che ormai è solo l’ombra di ciò che sarebbe potuta essere, e che capitolo dopo capitolo ci racconta storie sempre più dimenticabili, protagonisti sempre più anonimi. Fallito tragicamente anche il tentativo in cui non solo io speravo, il franchise di Watch Dogs, che col secondo capitolo rende la narrazione poco più che un contorno per un clone con gli hacker mal riuscito di GTA.
E allora torniamo al nostro Days Gone, che ha avuto l’ambizione di raccontare più di una storia di spessore all’interno di un sistema open world.
Perché Days Gone non racconta la solita distopia a base di apocalisse zombie, piuttosto racconta di un mondo che prova a sopravvivere ad essa. Racconta la cultura dei Bikers e una storia fortemente umana, di sentimenti come l’amore e l’amicizia, attraverso quel personaggio sfaccettato di Deacon St. John, che, a differenza di tanti altri protagonisti un po’ stereotipati e subito identificabili in degli schemi, impariamo a conoscere un po’ alla volta nel corso dell’avventura.
Racconta anche l’Oregon, una delle ambientazioni meglio riuscite che abbia giocato negli ultimi tempi. E fa tutto questo creando anche un sistema coerente e mai ripetitivo di quest secondarie che si innestano perfettamente nel tessuto unitario del racconto, con i suoi peculiari tratti di gameplay (dalla guida con la moto alle orde di Furiosi), che se non altro provano ad innovare un po’ il panorama, laddove altri titoli che pure ho apprezzato tantissimo, come Marvel’s Spider-Man, giocano molto più sul sicuro, innovando zero.
Per cui, concludendo, non c’è una formula magica per raccontare una bella storia in un videogioco open world. Non c’è un modo univoco per provarci, solo prodotti che riescono e altri che riescono meno, brillando magari sotto altri aspetti pur avendo una scrittura mediocre. Non è il caso di Days Gone, la cui storia ha poco da invidiare alle migliori produzioni narrative di questa generazione, nonostante sia un open world.