L’avete già tradotto in mille salse sfidando voi stessi (e il genitivo sassone): la montagna vergine, la montagna della vergine, una montagna che effettivamente è chiamata Vergine. Poi avete digitato l’espressione su un innocuo motore di ricerca, troppo pigri per specificare di tradurla, sperando che la rete non pescasse maliziosamente nei bassifondi del porno marketing. Ed eccoci qua, la fantasia un pò intorpidita, ma una gran voglia di scalare la montagna, qua per recensire un film leganerdianamente vergine.

Fusi è il protagonista del film di Dagur Kari e parla poco. Forse gli islandesi hanno poche persone con cui parlare. I nordici in generale non danno l’idea di essere dei chiacchieroni.

Una mia conoscente portoghese silenziosa di giorno e… insomma parlava poco anche lei e sognava di trasferirsi in Islanda. La terra del ghiaccio. O la terra di ghiaccio? Ok, meglio non aprire una nuova digressione sui sottili binomi anglosassoni.

Dicevo di Fusi, beh, è un omone la cui passività è confortante. Lavora certo, all’aeroporto, ma avvolto com’è nella sua mole, la vita che gli scorre davanti come i carrelli di pesanti trolley che deve scaricare, rende tutto ciò che lo riguarda, nonché il film stesso, ovattato.

Al mobbing di un collega o a una bambina rimasta chiusa fuori di casa, l’uomo risponde con una bontà d’animo metafisica

Tanto al mobbing ignorante di un collega quanto a una bambina chiusa fuori di casa l’uomo risponde con una bontà d’animo metafisica, un’aura e una flemma che nascondono un animo sia in cerca di riparo da (dis)avventure personali sia protettivo verso gli imprevisti altrui.

Non proprio un odierno Bilbo Baggins, ma dell’hobbit ci ricorda la torsione per cui mentre guarda alla casa-rifugio in verità tende fuori dall’uscio. Una seconda verità è che nonostante tutto crede di spassarsela, sebbene entro i tratti automizzati di una personalità in letargo laddove potrebbe definirsi infantile.

 

 

È un GGG a cui è mancato un trigger, o un paio, e si è ritrovato quarantenne come Steve Carrell (quello di 40 anni vergine), davanti a una tazza di latte e cereali (che il common marketing associa alla gioventù) e sotto lo stesso tetto della madre insieme al suo amante.

I baffi intrisi di latte della locandina confermeranno, per taluni, l’ipotesi del bambinone ancora attaccato al capezzolo: resto convinto che l’attore, Gunnar Jònsson, ha superato di parecchie spanne qualsiasi immagine macchiettistica, esprimendo al contempo complessità e semplicità emotive meritevoli di una seconda visione.

Il sottotitolo, inserito sopra la calvizie di Fusi, recita ‘you can’t avoid life forever‘. Più che accattivante è una cattiva e stantia trovata pubblicitaria, divertente da smontare. Prima alternativa, a mo’ di freddura: ‘of course you can’t, unless you’re immortal‘. Concedetemi una seconda alternativa di puro black humour: ‘what if i kill myself?‘.

È un GGG a cui è mancato un trigger.

Tornando a noi. Sono le due figure genitoriali a dare una spinta a Fusi, prima sbattendogli in faccia le loro chiappe all’aria, poi regalandogli lezioni di ballo cowboy (si dice country?), e se lo mostra anche il trailer non è spoilerare. Piuttosto è plot marketing. Dunque la nostra montagna vergine intraprende una prima timida effrazione rispetto ai suoi rituali giornalieri,

piccolo atto di coraggio che lo porterà a conoscere nuove persone, trovando la leggerezza necessaria a volare.

La stessa leggerezza che sospinge quelle tonnellate d’acciaio alate che gli atterrano e sfrecciano attorno da anni sul posto di lavoro.

 

 

Durante la mia carriera cinefila oltre-Manica, prima di incontrare Fusi, ho visto valli innevate e montagne sepolcrali celare Santa Claus demoniaci (Rare Exports, di Jalmari Helander), fiammiferaie abusate alzare la testa e sfregare clorato di potassio e solfuro di antimonio per accendere la fiamma della rivalsa (La fiammiferaia, di Aki Kaurismaki).

O ancora giovani scapestrati sprovvisti di futuro vagare nella desolazione di una cittadina islandese (Noi Albinoi, dello stesso Dagur Kari). Ho usato il plurale sia per fare il pallone gonfiato sia per gonfiare i titoli fino a rendere conto della effettiva levatura di un certo cinema nordeuropeo e non.

Quel cinema che ci parla dei non-del-tutto-vinti, i quali prossimi alla morte interiore danno il meglio di sé in extremis,

un pò come accade in Tekken quando la barra vitale è agli sgoccioli. Non per tutti c’è un finale positivo, e non tutti i personaggi citati calzano l’esempio, ma il fuori tema qui è d’obbligo perché è ciò che accade a Fusi: poter cambiare strada col suo pick up, poter provare un lavoro diverso o dormire sotto un altro tetto, vedere e fare le stesse cose in una nuova prospettiva.

Il fuori tema qui è d’obbligo perché è ciò che accade a Fusi.

E così l’ipnosi glaciale si scioglie, la fuga è approfondimento, l’unica cosa da cui ci si allontana il presente. La miniatura della battaglia di El Alamein con cui la montagna vergine si diletta, se storicamente narra di un decisivo ribaltamento delle sorti alleate nel conflitto mondiale, per Fusi ed a insaputa di Fusi, che lo considera un hobby coltivato in compagnia di un vecchio amico (una delle non così poche figure leali insieme alla madre, al datore di lavoro, alla bimba vicina di casa e allo speaker radiofonico ecc), rappresenta anche la svolta che deve strategicamente dare alla sua vita.

 

 

Ormai lo si è capito da un pezzo anzi ci ho quasi scritto un sermone, vabbé lo riscrivo:

Fusi è la montagna vergine. Ma di cosa è vergine?

Di un pizzico di rabbia. Oltre che di sesso. E di coraggio, per fare di quella rabbia orgasmica qualcosa di utile, per sé o per gli altri (che secondo il regista-sceneggiatore è un altro modo di dire per sé).

Ed è una montagna: solo per la stazza e il pazientissimo dinamismo? Se Maometto non va alla montagna… Direi anche perché ha tanto da offrire – diventando punto di riferimento per un twist-character (interpretato dalla formidabile Ilmur Kristjánsdóttir) con cui darà il via alle danze – e in quantità così insperata che lui stesso si renderà conto che ha semplicemente tanto da fare… E allora gambe in spalla (voglio il sequel).

Virgin Mountain è ora disponibile in home video.