L’ultimo film italiano presentato nel Concorso della 74° Mostra del Cinema di Venezia è Hannah, opera seconda del regista italiano Andrea Pallaoro. Protagonista del film è la bellissima Charlotte Rampling che regge la narrazione interamente sulle sue spalle. Eppure Hannah, che vorrebbe essere un film fortemente intimista, finisce con l’essere una tragedia piatta ed apatica, dove oltre ai lunghi silenzi della sua protagonista resta ben poco.
A differenza di Paolo Virzì con il suo Ella & John e il musical napoletano Ammore e Malavita, Andrea Pallaoro al suo secondo lungometraggio si affiancano a Sebastiano Riso come italiano in concorso poco riuscito.
A chiudere la corsa del concorso sia per gli italiani che per gli internazionali, il giovane regista trentino torna a Venezia dopo quattro anni. Infatti, se nella settantesima edizione del festival di Venezia Andrea Pallaoro aveva portato la sua Medeas nella sezione Orizzonti, quest’anno torna alla carica direttamente in concorso con Hannah, storia di una donna sola e incapace di accettare il suo stato di isolamento.
A Pallaoro piace circondarsi di incredibili personaggi femminili. Adora le storie psicologiche e penetrare nella vera essenza dell’animo umano.
Hannah è il primo di una trilogia dedicata a tre donne diverse, tre mondi opposti, tre sensibilità differenti. Un percorso che, in parte, il regista aveva già incominciato nel 2013 con il primo film Medeas.
Sebbene così giovane, Pallaoro ha un curriculum di tutto rispetto: si è laureato in regia cinematografica alla California Institute of Arts e ha vinto con il suo primo film il Marrakech Film Festival proprio come miglior regista.
Da Medeas a Hannah, Pallaoro di strada ne ha fatta, ma sebbene affiancato da un’attrice del calibro di Charlotte Rampling, il film nel complesso resta piuttosto insignificante. Pretenzioso e incapace di raccontare quello che realmente doveva essere l’idea iniziale.
Hannah è la storia di una donna matura incapace a relazionarsi nei confronti della realtà. Hannah, pur covando da sempre il sogno di voler diventare un’attrice, è una donna che galleggia in una bolla di sapone.
Sospesa per aria, si muove da una parte all’altra, quasi invisibile, trascinandosi con sé quel senso di tristezza, frustrazione e invisibilità.
Il rapporto con suo marito è silenzioso, freddo, quasi morto, eppure quando all’improvviso quest’ultimo viene arrestato, Hannah è incapace di accettare quel tipo di realtà. Giorno dopo giorno la donna è costretta a fare i conti con sé stessa, minando ancora di più la sua fragilissima psicologia.
Un crollo fisico e mentale graduale, che porterà il personaggio alla totale esasperazione, perdendo qualsiasi cognizione con la realtà, lo spazio e il tempo.
Sebbene gli intenti siano davvero interessanti, e si capisca fin dall’inizio che quello di Pallaoro vuole essere un intimo e profondo ritratto di una donna completamente abbandonata a se stessa, sola, senza alcun appiglio, senza alcuna speranza o visione per il domani, Hannah non è altro che una serie di scene privi di phatos, di coinvolgimento.
Incapace ad emozionare davvero, il film si trascina lungo la sua ora e mezza, prendendo lo spettatore per sfinimento.
La grande interpretazione di Charlotte Rampling, sospesa all’interno di questo personaggio indecifrabile, non basta per salvare il lavoro di Andrea Pallaoro dal fallimento completo.
Hannah sembra più appartenere alla categoria “esercizio di stile”, cercando di rendere il meno ossessiva possibile la macchina da presa. Una carezza lungo il personaggio che vorrebbe strizzare l’occhio ai drammi intimi del cinema di Xavier Dolan, ma finisce col diventare un prodotto tediante, che butta fuori lo spettatore sia dallo schermo che dalla storia.
Imbarazzante la scelta di alcune location: si vuole far credere allo spettatore di essere in Francia quando, ad esempio, si riconoscono facilmente la metro e le strade di Roma. Anche l’uso dell’ambientazione francese e dei rari dialoghi in lingua resta un grande punto interrogativo della pellicola, che lascia amaramente delusa l’intera critica di tutta la Mostra del Cinema di Venezia.
Dialoghi pochi, per non dire inesistenti. Lunghi silenzi che vorrebbero portare a riflettere e far riflettere la protagonista. Una sospensione del tempo esagerata, che non sa funzionare a causa della narrazione molto superficiale, poco approfondita.
Di quel poco che accade, come per esempio l’arresto del marito, non viene mai data una spiegazione, innervosendo e confondendo lo spettatore. Come avviene il declino di Hannah? E perché?
Andrea Pallaoro non sa rispondere a queste domande, rendendo l’intero impianto fragile.
Non si riesce davvero a creare un rapporto con la protagonista, perdendola non molto tempo dopo l’inizio.
Hannah è l’esempio di quello che un giovane regista non dovrebbe fare. Poco coraggioso, canonico, superficiale, pretenzioso. In un periodo storico cinematografico in cui finalmente le menti si stanno risvegliando e il cinema italiano sta iniziando a giocare un po’ di più, prodotti come Hannah sono inaccettabili e incomprensibili.
L’ambizione di Pallaoro non riesce ad arrivare, finendo semplicemente con il cullarsi sulle spalle di una grande interprete. Un film molto poco incline all’essere definito tale.