Dopo 30 anni di tentativi Martin Scorsese porta sul grande schermo Silenzio, il romanzo dello scrittore Shusaku Endo che racconta la ricerca di due giovani preti gesuiti del loro maestro, padre Ferreira, disperso nel Giappone del ‘600 dopo essere arrivato nel Paese del Sol Levante anni prima per portare la parola di Dio. Un viaggio tormentato e affascinante, che si interroga sul desiderio, umano e insopprimibile, del divino.
Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo. (Romeo e Giulietta: atto II, scena II)
Dio, Buddha, Allah: tanti nomi per indicare, pur con le differenze tra ogni singola religione che li ha creati, la stessa cosa, un essere superiore, una sostanza, una forza, che ha creato l’uomo e l’universo, che ci osserva in silenzio, dal cui giudizio e amore non si può fuggire.
Per chi crede, il sentimento di Dio è un fatto assodato, come avere due polmoni e un cuore, di cui la scienza non riesce a provare o a negare con certezza la sua esistenza, per chi non crede, si tratta del desiderio, comprensibile e tutto umano, di colmare il vuoto che ci provocano domande come: “Perché siamo qui? Qual è il significato della vita?”, i filosofi lo hanno invece catalogato in diverse correnti di pensiero.
Forse però l’arte, che in fondo racchiude in sé tutte le discipline nominate, è quella che meglio riesce a restituire questo sentimento: in una sinfonia di Beethoven, nei versi di Shakespeare, nei quadri di Caravaggio è difficile non ritrovare quel desiderio di eternità che riempie il cuore di tutti gli esseri umani.
Per un artista è quindi inevitabile, qualunque sia la sua disciplina, affrontare, a un certo punto del suo percorso, il più grande dei misteri: la fede.
Per Martin Scorsese, cresciuto in una famiglia cattolica italoamericana, che, prima di diventare regista, ha studiato da seminarista, il rapporto con Dio e il senso del peccato sono temi costanti, affrontati anche quando ha raccontato le storie di criminali senza scrupoli, o ha catapultato il pubblico su un taxi giallo per le strade di New York, o sul ring degli incontri di pugilato.
Dopo 30 anni di tentativi, e diversi cambiamenti di cast (a un certo punto si erano fatti i nomi di Daniel Day-Lewis, Benicio del Toro e Ken Watanabe), il regista è riuscito a portare sul grande schermo Silenzio, libro dello scrittore Shusaku Endo, che racconta il viaggio di due giovani preti gesuiti, padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garrpe (Adam Driver), nel Giappone del ‘600, alla ricerca del loro maestro, padre Ferreira (Liam Neeson), arrivato nel Paese del Sol Levante anni prima e poi scomparso durante le persecuzioni ai danni dei cristiani.
Se questo è Dio
Dopo il racconto del martirio di Gesù in L’ultima tentazione di Cristo (1988) e della vita del piccolo Dalai Lama in Kundun (1997), Scorsese torna a parlare in modo dichiarato di religione, ma questa volta lo fa seguendo i tormenti interiori e fisici di un uomo come tanti, un prete gesuita, padre Sebastião Rodrigues, che, insieme al compagno di seminario padre Francisco Garrpe, va in Giappone alla ricerca del loro maestro, padre Ferreira, che non soltanto è disperso, ma si dice abbia abiurato, abbracciando la cultura e la fede nipponica, cambiando il suo nome cristiano in uno orientale.
Oltre che nella splendida fotografia di Rodrigo Prieto, che sembra avvolgere ogni cosa di mistero, dal filo d’erba ai grumi di sangue rappreso, la bellezza dura e difficile di Silence sta nella palpabile presenza di qualcosa che non si manifesta mai concretamente, se non nel cuore, negli occhi e nelle orecchie degli uomini.
I contadini giapponesi convertiti al cristianesimo, perché ammaliati dalla promessa di un Paradiso in cui non saranno più gli ultimi tra gli ultimi, torturati e perseguitati come animali, non riescono letteralmente a sputare sul crocifisso pur di salvarsi la vita: eppure, se guardato in modo razionale, si tratta di un semplice oggetto, come dice l’Inquisitore Inoue Masahige (Issei Ogata). Forse.
Ma di fronte a tanta tenacia, tanta sofferenza, come si fa a dire che quel pezzo di legno non è niente? Forse Dio è proprio lì, in quel bisogno di sentirsi amati, nonostante tutto, nonostante il suo silenzio, che, invece di respingere, alimenta, in chi crede, questo desiderio.
E poi c’è l’altro punto di vista, quello dei giapponesi: per loro i cristiani sono degli arroganti, venuti nel paese per diffondere una verità che a loro non appartiene, che non capiscono e non sentono vicina.
Come dar loro torto? Anche in questo, Silence si dimostra una riflessione profonda: la fede non può essere un’imposizione, ognuno dovrebbe trovarla dentro di sé. Ma, ancora oggi, così non è: accanto al desiderio di Dio, nell’uomo vive anche quello che lo spinge ad affermare la propria verità come l’unica vera e sola.
Un dilemma insormontabile. Da qui le persecuzioni viste in ogni momento storico e latitudine, in netto contrasto con il messaggio cristiano: per dimostrare il proprio amore per Dio, è giustificato perseguitare l’essere umano?
In 161 minuti, Scorse si interroga, soffre, medita insieme ai suoi protagonisti, fa del suo film un’opera politica, in cui i padri, spirituali e regnanti, tormentano e tradiscono le proprie creature, peccatori anche loro, senza però arrivare a una verità univoca: il mistero è sempre lì, insondabile, unico e allo stesso tempo multiforme, a seconda di chi ci si avvicina.
Questa volta l’occhio del regista non è un Dio onnisciente, ma un uomo che si pone delle domande, come tutti noi.