Dici Studio Ghibli, pensi Hayao Miyazaki. L’associazione è immediata, perché soprattutto negli ultimi anni il maestro giapponese è oggetto di una sovraesposizione mediatica (meritata) da record. Ma lo studio Ghibli è anche figlio di una controparte, meno sotto i riflettori e forse più seria e intransigente: Isao Takahata.
Nato nella prefettura di Mie nell’ottobre del 1935, Takahata è cresciuto fin da piccolo circondato da cultura e stimoli artistici non soltanto di taglio giapponese, tanto che più avanti deciderà di studiare letteratura francese.
Una carriera segnata dal destino di un bambino precoce che legge, scrive presto e si interessa a tutto quello che lo circonda.
Proprio all’università nasce l’amore per il cinema: Takahata è un vero e proprio “dreamer”, di quelli che divora pellicole di tutte le epoche e dirige il cineclub degli studenti, finendo anche per fare il critico cinematografico nella rivista del campus.
Mai interessato al disegno, se mai più alla regia vera e propria e alla direzione degli animatori, Isao vede arrivare la sua prima occasione nel 1959.
Entra come allievo regista nell’allora prestigiosa casa di produzione Toei Doga ed è qui che conosce per la prima volta quello che sarà il suo amico e collega da lì ai decenni a venire: Hayao Miyazaki.
Con i primi lavori di animazione condivisi in team, Takahata alla direzione e Miyazaki al character design e ai fondali, vengono lanciati i semi dello Studio Ghibli, fuori dal Giappone spesso etichettato con la riduttiva ed erronea etichetta di “Disney d’Oriente”.
Takahata rabbrividerebbe al solo sentire queste parole, dato che ha sempre voluto andare ben oltre la classica – con tutto il rispetto – “favoletta per bambini”, cercando il lato artistico dell’animazione intesa non come fine/genere ma come mezzo espressivo per toccare corde liriche e argomenti delicati.
Dopo diversi ed importanti lavori tv (vi dicono niente Heidi, Lupin III, Conan ragazzo del Futuro?) Takahata e Miyazaki decidono di fare il salto nel buio dopo l’esperienza produttiva del 1983 di Nausicaä della Valle del Vento.
Miyazaki ha scritto e disegnato il manga per la Tokuma Shoten (anche casa di produzione del film), Takahata mette in campo le sue capacità aziendali e di direzione della squadra: quasi 100 persone fanno nascere quello che ancora oggi è considerata la pietra miliare dell’allora non ancora formalmente nato Studio.
Nel 1985, forti del successo di Nausicaä, i due decidono di dare il via all’esperienza di creare un’animazione come la vogliono loro.
Altissima qualità, nessun compromesso commerciale, attenzione a tutti i colori delle emozioni umane.
L’esatta pronuncia di “Ghibli” è… “Gibli”, alla giapponese. Miyazaki ci ha messo lo zampino, da amante di aerei e aviazione del primo Novecento: i piloti italiani in Nord Africa chiamavano così il vento caldo del deserto del Sahara.
Isao Takahata accompagna il socio e lo Studio in tutte le avventure: quando decide di mettersi a firmare in prima persone delle opere, lo fa con stile fortemente impegnato e frontale, spesso arrivando a commuovere.
Qui si vede la formazione di stampo europeo del maestro, il suo amore per i lavori di Prévert, di cui è stato traduttore, per la musica classica e per i drammi neorealisti.
Prima di firmare uno dei capolavori del cinema antimilitarista, quel La Tomba delle Lucciole che tanto ci ha fatto piangere e che sta per arrivare per la prima volta al cinema in Italia (10 e 11 novembre!) Takahata ha dato molto anche alla “semplice” animazione seriale per bambini e ragazzi.
C’è del suo – spesso si tende a ricordare solo Miyazaki – nella mitica serie “con giacca verde” di Lupin III (1971-1972), poi in Heidi (1974), Conan Ragazzo del Futuro (1978), Anna dai capelli rossi (1979), Little Nemo (1982), solo per citare i maggiori.
Nel 1972 dirige “Panda Go Panda!” (1972) e “Il circo sotto la pioggia”” (1973), due cortometraggi scritti dal collega Myazaki.
Dopo Nausicaä e Laputa – Il Castello nel Cielo, Takahata dedica anni e sudore al compimento del suo capolavoro, giustamente osannato: La Tomba delle Lucciole (1988).
Assecondando i suoi ideali e le sue convinzioni antimilitariste, Takahata firma la sceneggiatura e la regia di una drammatica storia, che senza sconti denuncia gli orrori della guerra – qualunque guerra – e dell’umanità gretta e meschina.
I due orfani Seita e Setsuko sono diventati simbolo delle tragedie della Seconda Guerra mondiale ma sono anche la rappresentazione dell’infanzia violata e violentata dalla cieca follia degli adulti.
Nel 1991 si cambia decisamente registro e, contro ogni aspettativa, Takahata vince una sfida difficilissima dirigendo e scrivendo un lungometraggio d’animazione con tematiche per adulti e molto introspettivo.
Omohide Poro Poro – Pioggia di Ricordi è proprio… “francese”!
Una ragazza di quasi trent’anni lascia d’estate la città per la campagna, ripensa alla sua vita e al suo futuro: rabbrividirebbe chiunque, eppure il maestro sfodera una grazia incredibile che rende il film il maggiore incasso giapponese dell’anno.
Successo bissato con il film che segue il celeberrimo Porco Rosso di Miyazaki, ovvero quell’ingiustamente spesso sottovalutato Pom Poko (1994), che Takahata scrive di suo pugno facendo critica sociale e stemperandola attraverso i Tanuki, animaletti (cani-procioni) della tradizione giapponese.
Ma la battaglia è seria: ancora una volta a fare danni è la razza umana e il suo arrivismo che distrugge la natura.
Dovranno passare cinque anni perché il maestro si rimetta a dirigere, e stavolta sarà un film particolarissimo, a partire dall’aspetto visivo: si tratta di Hōhokekyo tonari no Yamada-kun – I miei vicini Yamada (1999).
Tratto dal manga di Hisaichi Ishii, Takahata si lancia in una leggera ma significativa dissezione delle vite delle famiglie moderne, parlando di una realtà giapponese che può essere ritrovata un po’ ovunque.
Per la prima volta lo stile d’animazione “Ghibli” si piega a tratti più abbozzati che rispettano l’opera originale ma si dimostrano altrettanto espressivi.
Arriviamo dunque, dopo una lunga attesa, a La storia della Principessa Splendente (2013), racconto tradizionale giapponese, poetico e delicato, accolto con entusiasmo da critica e pubblico e ancora una volta diverso e unico: Miyazaki ripete se stesso, Takahata pure, per la coerenza di sperimentare e disattendere le attese.
Diversi per stili artistici e caratteri, ma uniti dall’arte.
Mentre Miyazaki è meticoloso e preciso, Takahata è un pensatore solitario che spesso dimentica ritmi della vita quotidiana per isolarsi dal mondo.
Takahata racconta di come lui e Miyazaki siano animati da stima reciproca da sempre, “una reciproca comprensione” che li porta a criticarsi e spronarsi e, quando necessario, a litigare come due ragazzini.
Insieme hanno dato vita ad un mito che ha prodotto alcuni dei più alti e indimenticabili prodotti dell’animazione mondiale.
Un modo di raccontare storie che ha nobilitato i disegni animati e dimostrato come siano veicoli di cultura, riflessioni, messaggi universali.
Foto in testa e in cover: ©Jay L. Clendenin / Los Angeles Times