Pixels sta per arrivare nei cinema. Il sogno bagnato dei videogiocatori old-school sta per materializzarsi sul grande schermo: vedere gli eroi pixellosi dell’infanzia nello splendore della sala cinematografica. Anche se stavolta saranno i cattivi. E tra i buoni c’è Adam Sandler.
Vabbè, mica si può avere tutto dalla vita.
Indipendentemente dalla riuscita e il valore artistico del film, questa è una ennesima, gigantesca bandiera piantata nella cultura popolare da parte del retrogaming. La storia dei videogiochi entra di prepotenza in un blockbuster ultramilionario.
Mi sembra un buon momento per parlarti un po’ di tre dei protagonisti fatti di pixel, titoli che hanno cambiato per sempre la storia dei videogiochi, e anche un po’ della società.
Space Invaders
La TAITO, che pubblicò il gioco, deve ringraziare un solo uomo che ha pensato il concept, realizzato l’hardware, disegnato e programmato questo videogame leggendario: Toshihiro Nishikado.
Da vero factotum, si è occupato anche del comparto sonoro. La maggiore fonte di ispirazione è stata Star Wars, uscito l’anno prima, ma non si può non notare l’influenza di scrittori come H.G. Wells e Lovecraft per il design “tentacolare” degli alieni.
L’atmosfera di “ultima difesa dell’Umanità contro l’invasione spaziale” ha donato quel brandello di plot archetipico che ha fatto la fortuna del gioco.
à la guerre.
Space Invaders ha raccolto ispirazione un po’ dappertutto, ma come la storia ci insegna, ha creato qualcosa di nuovo, unico e inimitabile. Sebbene poi sia stato imitatissimo. Nessuno dei giochi precedenti “sparatutto” come Missile Radar aveva saputo mettere in piedi uno schema di gioco innovativo e accattivante, quello che sarà battezzato top-down shooter e che vedrà centinaia di cloni più o meno riusciti nel corso degli anni Ottanta.
Qualche nome dei figliocci di Space Invaders? Scateniamoci: Galaga, Xevious, Galaxian, 1942… per non parlare di quelli che poi ribalteranno lo schermo per passare allo scorrimento orizzontale come Defender o R-Type.
La creatura di TAITO e Nishikado è stata la testa di ponte con la quale i videogiochi giapponesi hanno conquistato il mercato americano. Gli USA, come al solito, non vedevano di buon occhio gli stranieri e il dominio di case di produzione come Atari e Midway era quasi indiscutibile: ma il fenomeno di massa che era diventato Space Invaders in Giappone era troppo grosso per essere ignorato, e il videogame nipponico riuscì nella doppia impresa di far breccia nel panorama delle sale giochi e addirittura creare un hype simile negli adolescenti a stelle e strisce.
Da lì alla conquista del mondo sotto il profilo culturale il passo è stato beve. Con Space Invaders il prodotto-videogame diventa una forma di intrattenimento che non può essere più ignorata a rubricata come “moda passeggera”. Pong è stato il primo gioco celebre, ma lo sparatutto con gli alieni è stato il punto di non ritorno della fama del mezzo videoludico.
Con una società in rapida trasformazione e spazi sempre più ampi per giocare (urbani e casalinghi), un gioco memorabile come Space Invaders ha reso il mondo consapevole della potenza dei videogame.
Pac-Man
Quando nel 1977 il ventiduenne Toru Iwatani era entrato a far parte della Namco, mai si sarebbe sognato di progettare videogiochi: anzi, manco gli piacevano. Lui voleva lavorare sui flipper, si considerava un “pinball wizard”. Purtroppo per lui, quello che all’epoca si era imposto come un vasto mercato ricco di possibilità lo “convertì” a programmatore, con prima esperienza legate ai giochi Gee Bee e Cutie Q.
Ecco, più o meno, quella che fu l’intuizione geniale di Iwatani. I videogame di quell’epoca, in testa il prototipo Space Invaders che i suoi capi gli avevano ordinato di “copiare”, erano tutti basati su sparare, uccidere, far esplodere, insomma su concetti guerreschi e targettizzati agli uomini. Il giovane designer voleva creare qualcosa che potesse piacere a tutti, grandi e piccini ma soprattutto donne e famiglie intere, superando il “misero” concetto di PONG.
Ecco allora che si inventò dei piccoli ammassi di pixel colorati a cui dare un carattere e un carisma, con un protagonista giallo ispirato al modo di dire paku-paku, che in slang giapponese significa masticare. (Se ve lo state chiedendo: non è un aneddoto che funziona molto come frase d’acchiappo a una festa)
Molto spesso sentiamo dire che la forma e il celebre profilo di Pac-Man sono dovuti ad un particolare momento epifanico in cui Iwatani avrebbe sollevato una fetta di pizza e, adocchiata la forma rimanente, avrebbe esclamato: “Habemus Pac-Man!”. Lui stesso ha alimentato questo mito, probabilmente data la mole di gente che glielo faceva notare, arrivando persino a posare per foto pubblicitarie con una pizza gigante a cui mancava una fetta, a mo’ di bocca spalancata della sua creaturina. Qualche anno più tardi l’autore ha ammesso di essere invece arrivato alla forma rotonda e pucciosa smussando idealmente gli angoli all’ideogramma giapponese che rappresenta la parola “bocca” (kuchi), in realtà quadrato.
Se ve lo state chiedendo, quello che abbiamo visto nei trailer di Pixels non è il vero Toru Iwatani: si tratta dell’attore Denis Akiyama, che pure gli assomiglia un sacco.
Donkey Kong
La storia completa dei primi anni della Nintendo videoludica, Donkey Kong incluso, è raccontata nell’interessante libro La Storia di Mario di William Audureau, Multiplayer Edizioni.
Il papà di Super Mario era solo solo un giovanissimo assistente di produzione nella Nintendo del 1977, che aveva messo progressivamente le sue capacità artistiche in luce nei pixel di alcune produzioni come Sheriff, datato 1979.
La sua occasione arrivò quando il presidente della grande N, Hiroshi Yamauchi, rimase impressionato dal balzo in avanti sotto il profilo della giocabilità che teneva incollati allo schermo di Pac-Man. Quando decise di dare carta bianca ai suoi artisti, Miyamoto si fece trovare pronto.
Una delle storie più curiose legate a Donkey Kong è quella che vede il videogame nascere con i personaggi di Popeye: Braccio di Ferro era infatti uno degli eroi “occidentali” messi sotto contratto dalla Nintendo giapponese per varie produzioni legate ai giochi di carte e da tavolo. Nel passaggio al reame videoludico, però, qualcosa si è inceppato perchè la King Features, detentrice della proprietà del personaggio creato da Elzie Crisler Segar, negò ogni utilizzo. Miyamoto si ritrovò a dover inventare nuovi protagonisti per il gioco che aveva già un impianto pronto. Il resto, come si dice, è storia… con l’arrivo di un gorillone pazzo e un buffo ometto con i baffi che doveva salvare la sua bella dalle sue grinfie.
Come detto, il presidente di Nintendo era rimasto folgorato da Pac-Man. Ecco perchè nei primi design Donkey Kong avrebbe dovuto essere una sorta di “clone” con personaggi diversi. Ma il genio di Miyamoto e di Gunpei Yokoi, l’esperto designer di giocattoli che avrebbe poi inventato il Game Boy, li vide rifiutare il calco e introdurre la novità sostanziale e decisiva: il pulsante “salto” e l’idea di una scalata in verticale.
Nel 1981 Donkey Kong aveva sfondato un po’ dappertutto, i videogiocatori impazzivano e nelle sale giochi stava rastrellando miliardi. Lo studio cinematografico Universal, però, pensò bene di incazzarsi ritenendo che qualsiasi cosa con “Kong” nel nome fosse un furto ai suoi danni, che avevano nella scuderia il “Kong” per eccellenza, King Kong. Non una mossa particolarmente furba da parte del presidente dello studio, Sid Sheinberg, ma erano altri tempi: nel 1982 Universal trascinò Nintendo in tribunale dopo aver minacciato chiunque possedesse nel proprio locale un cabinato di Donkey Kong. Indovinate chi ha vinto dopo una dura battaglia?
Ok. Ma perché “Donkey”? E chi lo sa. Questa è una delle leggende senza risposta (univoca) del mondo dei videogiochi. Uno dei nomi più famosi del mondo dei videogiochi ha un’origine controversa e improbabile. Suona benissimo, ma nessuno se ne prende la paternità assoluta. C’è chi dice che il nome e il logo furono realizzati leggendo male un fax spedito dal Giappone che recitava un ridondante “Monkey Kong”. Miyamoto dice che è nato scherzando tra lo staff dove il termine “donkey” veniva usato – in modo molto americano – per indicare la loro testardaggine.
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