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Consapevole che prenderò l’ennesima vagonata di parole e parolacce per questo post mi permetto di parlare dell’ultimo film che ho visto.

“[i]Bisogna andare al cinema nella consapevolezza che vedere un film è ben diverso da leggere un libro![/i]”
Questa frase, di un’ovvietà estrema, appartiene a Tim Burton che, trovatosi a dirigere l’adattamento cinematografico del romanzo Big Fish, ha voluto anticipare allo spettatore il fattto di essersi preso tutte le licenze che spettavano ad un regista del suo calibro.

Quando ho letto che David Fincher avrebbe girato i tre film della trilogia di Stieg Larsson ho pensato che la macchina hollywoodiana avesse compiuto una scelta azzeccatissima.

Credo che Fincher, fin dai suoi esordi, sia stato capace di stupire, di porre davanti agli occhi dei suoi spettatori immagini incredibilmente forti e cattive, per lo più messe in scena da personaggi connaturati da nevrosi quasi caricaturali, ma nel contempo assolutamente credibili.

Questa sua caratteristica ha sempre dato estrema drammaticità agli orrori che ha portato su pellicola.
Non mi posso socordare la sofferenza che ho provato al cinema, ormai 17 anni fa, durante la scena finale di Seven quando Morgan Freeman urla a Brad Pitt di gettare la pistola, e così è sempre stato nelle pellicole successive.
Ho quindi accolto questa scelta con estremo entusiasmo e non sono rimasto deluso.

Uomini che Odiano le Donne è un ottimo esempio di maturazione artistica, di capacità di adattamento pur mantenendo comunque quei connotati che caratterizzano da sempre la produzione di Fincher.
Il regista ama stupire lo spettatore subito, e questo ultimo lavoro non è certo da meno, regalando, nei primi tre minuti di apertura, dei titoli di testa spettacolari, che a qualcuno potranno forse apparire inadatti, ma che se guardati con attenzione volgiono trasmettere un messaggio preciso e curatissimo.

Chi ha adorato Seven non potrà dimenticare quella morbosa introduzione dove vedevamo il serial killer che, meticolosamente, preparava il suo famoso diario. Quella sequenza racchiudeva in pochi minuti tutta l’inquietudine e la morbosità di cui il film era emblema.
Ebbene, Uomini che Odiano le Donne non è da meno, i titoli di testa sono una vera e propria esplosione di forme che avviene sulle note di una delirante cover di Immigrant song dei Led Zeppelin riarrangiata da Trent Reznor dei Nine Inch Nails ed interpretata dalla gracchiante voce di Keren O.
Già dalla visione dell’opening chi ha letto il libro riesce a capire cosa si è voluto rappresentare in quella astratta visione violenta, e andando avanti con la pellicola la situazione va solo in migliorando o, a seconda dei punti di vista, peggiorando!

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Considerando la diversità incredibile dei due prodotti è inutile fare un raffronto tra l’adattamento precedente, quello con la bravissima Noomi Rapace, e quello attuale.
Conviene piuttosto cogliere le sfumature che ciascun regista, con il budget messo a propria disposizione, ha scelto di cogliere.

Già perchè se nell’edizione televisiva si è scelto di rappresentate per lo più la sofferenza a scapito della violenza Fincher non rinuncia proprio a nulla!
Gli attori vengono letteralmente guidati attraverso inquadrature che, a seconda della necessità, si fanno glaciali, sporche, asettiche e cupe. Anche nei momenti di rara tranquillità non c’è mai una situazione solare, in cui si riesca a respirare un minimo di serenità.

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Non parliamo poi della discussa scena dello stupro (e della successiva vendetta) che è rappresentata con una violenza che fa davvero male.
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La trama, per chi ancora non la conoscesse, vede il giornalista Mikael Blomkvist (Daniel Craig) redattore della rivista di economia Millennium che, condannato a seguito di un processo per diffamazione nei confronti del’industriale Wennerström, decide di prendersi una pausa dal lavoro.
Improvvisamente però gli viene chiesto di indagare privatamente sulla inspiegabile scomparsa di Harriet Vanger, nipote prediletta dell’ottantenne Henrik Vanger (Christopher Plummer), famoso magnate dell’industria svedese che era in attività nei decenni precedenti.
Si tratta di un caso molto complesso che richiede indagini nei meandri di tutta la famiglia Vanger, definita dallo stesso Henrik come “il peggior stuolo di ipocriti corrotti con cui si possa aver mai a che fare”.
Resosi conto delle enormi difficoltà nelle indagini Blomkvist chiede aiuto all’agenzia investigativa che in passato ha fornito un dossier su di lui. Grazie a questo contatto conosce Lisbeth Salander (Rooney Mara), hacker anoressica, con cui avvia (e conclude) le indagini sulla scomparsa della giovane Harriet Vanger.

Di più non si può scrivere se non che ogni tassello della trama, ogni nuovo elemento che può portare ad una soluzione, ci viene illustrato da un abile gioco di trama ed interpretazione che avvia pian piano lo spettatore verso una sempre più consapevole discesa verso l’orrore.
Già perchè giunti alla fine del film si ha davvero il timore di chiedersi cos’altro potrebbe succedere, e fino alla fine Fincher riesce a giocare su questo stratagemma, regalando un finale dentro al finale in parte ironico ma comunque sofferto.

Un risultato simile lo si raggiunge, oltre che col talento e con l’esperienza, anche grazie ad un buon cast.
Craig riesce a dare un buon contributo senza mostrare troppo gli addominali mentre Rooney Mara è impeccabile. Bravissimo (come sempre) anche Plummer nel suo ruolo ironico e azzeccato anche Stellan Skarsgård.

Come già detto Millennium è una gran prova di abilità per Fincher, una sfida che il regista ha accolto e sviluppato in maniera eccelsa, accettando l’arduo compito di ripresentare su pellicola il successo letterario dell’ultimo quinquennio dandone la sua personale visione.

Una visione fredda, fatta di sofferenza e luci al neon, di neve e di paesaggi immacolati ma desolati, macchiati da litri e litri di sangue.
Non è semplice far da collante a tutti questi dettagli, ma Fincher c’è riuscito.

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