All’inizio del film di cui stiamo per parlare c’è quello che sembra un reperto archeologico, recuperato da chissà dove, raffigurante una vecchia conoscenza del franchise, e riportato pian piano in proscenio, come per ripresentarlo al pubblico di oggi. Cominciamo così la recensione di Alien: Romulus, al cinema dal 14 agosto 2024 con 20th Century Studios, perché, a ben vedere, un po’ sta qui il senso della pellicola di Fede Álvarez, che rimette mano ai primi passi della saga dello xenomorfo e tira fuori dal cilindro un midquel (o un interquel o un comeviparequel) situato tra Alien del 1979 e Aliens – Scontro finale del 1986.
La ricerca di uno scenario “nuovo” nella misura in cui mette da parte, senza disconoscerla, la strada tracciata da Ridley Scott (che qui torna produttore insieme a Walter Hill, a testimonianza di quale immaginario della saga si voglia recuperare) per provare a guardare ad un futuro che vuole dire ancora molto. Dopo tutto c’è una serie tv all’orizzonte.
Un’intenzione logica, piuttosto ordinaria, ma di difficilissima esecuzione dal momento che pretende la misura (nel citazionismo, nella riproposizione e nella novità), che a sua volta pretende la conoscenza, lo studio e, soprattutto, il metodo, oltre che una sana dose di coraggio e fantasia. Per l’ambizione degli autori e per ciò di cui ha bisogno il titolo non basta l’effetto nostalgia come non basta recuperare un reperto archeologico, lustrato, ripulito e a cui è stato restituito l’antico splendore, bisogna farlo rivivere, altrimenti il pubblico di oggi si alza e se ne va.
I presupposti di Alien: Romulus
La carriera di Álvarez ci consegna un professionista facente parte con Rodo Sayagues (sceneggiatore anche di Alien: Romulus) di un duo alla pari nel contesto creativo, specializzato nei tentativi di rivitalizzare franchise del passato o di creare qualcosa di nuovo, ma allo stesso tempo derivativo, tant’è che nella loro filmografia troviamo remake de La casa e Non aprite quella porta, ma anche due capitoli di The Man in the Dark. La parola chiave è “horror”, nel senso di “facciamo quello che vi pare, basta che ci sia l’horror di mezzo“.
Ecco, la saga di Alien, specialmente nelle sue origini pre-lindelof washing, è senza dubbio un horror, che nella commistione con i temi fantascientifici e con le regole combinate con il rigore e le potenzialità dello slasher (in primis l’inserimento del femminile), ha permesso di creare qualcosa di incredibilmente appassionante perché misterioso, ma allo stesso tempo familiare. Il brivido calcolato, la tensione costruita all’interno di uno schema che, appoggiandosi su ciò che è aspettato, lavora sulle increspature e gioca lì il suo destino.
Un lavoro estremamente teorico sul quale la coppia uruguaiana ha deciso di puntare tutte le fiches. Il ritorno ai labirinti claustrofobici di una spaziale immersa nel nulla, ad una fotografia che gioca con le commistioni del nero e un altro colore alla volta, ma anche all’artigianalità nella costruzione delle creature e, infine, ad una sceneggiatura che gioca sui rompicapi, ovviamente aggiornata per un pubblico sempre più immerso nelle logiche videoludiche.
Ecco dunque che il cuore di Alien: Romulus diventa l’essenzialità dell’origine, una nuova ricetta base, con cui poter riapprocciarsi ad una mitologia in un modo nuovo, ma senza perdere i risultati raggiunti in precedenza. La saga torna a proporsi come uno slasher / horror viscerale, materico, organico soprattutto nell’accezione sessuale, riprendendo i temi classici che non sono mai passati di moda, anzi, come le derive del capitalismo, la germofobia, l’intelligenza artificiale e le forzature dell’evoluzione. Poi c’è il volto della Rain di Cailee Spaeny, che apre alla seconda parte dell’operazione.
E ora qualcosa di (quasi) completamente diverso
La protagonista è ovviamente un anti scream queen, come tradizione del franchise di Alien vuole, e potrebbe essere benissimo sia una nuova versione della Ellen Ripley di Sigourney Weaver che un’alternativa per il casting di Ellie sull’adattamento di The Last of Us (Bella Ramsey sei bravissima, non ci odiare). Insomma, Spaeny ha il perfetto phisique du role per essere un nuovo possibile volto di un certo tipo di personaggio femminile che in ambito artistico è sempre più inseguito, ma non sempre perfettamente a fuoco.
Lei ha la profondità giusta per poter farsi carico delle necessità di una generazione con sensibilità nuove rispetto al passato, ma che si ritrova suo malgrado a fare i conti con i medesimi mostri. Mostri non tanto come lo xenomorfo, ma più come una decisione fallimentare, come quella di mandare l’uomo in giro per lo spazio a colonizzare, riducendolo ad una razza schiava di un’entità capitalista come la famigerata compagnia Weyland-Yutani e incapace di arrivare a dama. Non a caso i giovani vogliono trovare un’altra casa e un’altra vita per loro stessi, giovani come quelli del gruppo protagonista della pellicola, che però cerca il carburante per attuare la propria fuga sulla nave sbagliata, un rudere alla deriva da chissà da quanto tempo. Superare un incubo per inseguire un sogno.
Un’altra differenza rispetto al passato è la relazione della nuova generazione con l’intelligenza artificiale e la razza androide nella specifico. Nella misura in cui Ash del compianto Ian Holm era trattato con il gelido rispetto che si deve a qualcuno di cui si ha bisogno, mentre l’Andy di David Jonsson è visto letteralmente come un fratello. C’è più complessità nel suo personaggio che in qualche altro protagonista, tant’è che egli diventa la metafora principale della dualità di uomo – macchina tipica della condizione attuale. Una tappa risolutiva verso il post umanesimo in cui l’umanità non è più prevista.
Alien: Romulus si concentra moltissimo su quest’ultimo aspetto e si spinge fino alle sue estreme conseguenze, utilizzando i semi piantati da Scott quando si è dato alla bioingegneria. Nonostante tutto ciò che si è detto di buono della pellicola (e si è detto molto perché molto c’è di buono) forse qui si può trovare la pecca che non rende l’operazione del tutto perfetta. Il titolo fa fatica a trovare una strada che sia inedita o una conclusione illuminante, appiattendosi su se stesso nella struttura e limitandosi a scambiare qualche addendo. L’idea di una ripartenza c’è ed è solida, ma le derive potrebbero essere già ora prevedibili a differenza di quello che riguardava l’operazione Prometheus, che ha tradito proprio da quel punto di vista. Staremo a vedere.
Nella recensione di Alien: Romulus vi abbiamo parlato di un midquel riuscitissimo in cui Fede Álvarez e Rodo Sayagues mettono tutta la loro sapienza sia in relazione al lavoro sul franchise che nella costruzione di horror / slasher fantascientifico. Il recupero del classico (sia in senso formale che di contenuto) viene aggiornato al contemporaneo, rappresentato benissimo da un cast guidato da Cailee Spaeny. Le riflessioni sul post umanesimo sono brillanti, ma le conclusioni del titolo non riescono a pieno a trovare una via originale.
- Il recupero del seme horror combinato con la fantascienza classica.
- La capacità di non perdere di vista la linea di Scott.
- La riproposizione di una forma classica.
- Il cast, guidato dalla protagonista, simbolo di un aggiornamento con contemporaneo.
- Le conclusioni a cui arriva non sono del tutto originali.