Spesso gli horror indipendenti hanno generato dei veri e propri casi cinematografici, del resto sia Venerdì 13 che Nightmare on Elm Steet sono nati come produzioni a basso budget di nicchia, per poi trasormarsi in veri e propri franchise. Da qualche mese è nato il caso Skinamarink, ed in questo approfondimento vogliamo provare a spiegare per quale motivo questo film merita di aver spopolato sul web, creando così tanta attenzione.
Il vero orrore, la vera inquietudine
La storia al centro di Skinamarink racconta di due bambini che si svegliano nel cuore della notte, per accorgersi che il loro padre non c’è più, e che stanno scomparendo porte e finestre della casa. Rispetto agli horror da jump-scare in questo lungometraggio a dominare è l’atmosfera, l’inquietudine, i momenti di sospensione che portano a piccole ma inquietanti situazioni, e ad un finale che non risolve veramente le cose, ma che, anzi, continua ad alimentare le domande. Il film è stato presentato in anteprima in Canada la scorsa estate, e distribuito negli Stati Uniti il 13 gennaio, per poi essere successivamente arrivato su Shudder. Costato solo 15.000 dollari ha già raccolto nelle sale 2 milioni. Il regista Kyle Edward Ball ha tratto questo film da un corto uscito nel 2020 intitolato Heck, in cui riproponeva tutti gli elementi poi messi in scena in Skinamarink (così come fece anche James Wan prima di lavorare su Saw). Il tutto nasce dall’interesse di Ball per gli incubi, al punto che il filmmaker ha aperto anni fa un canale YouTube in cui trasformava in video i racconti dei brutti sogni di altre persone.
E, alla fine sono sempre gli incubi il motore dei migliori horror, proprio per quella loro capacità di far parlare l’inconscio, e di lasciare sempre un qualcosa di indefinito.
Il caso Skinamarink è simile a quello di altri lungometraggi come Picnic ad Hanging Rock, Blair Witch Project, ed anche Babadook. Si tratta di opere che, chi più e chi meno, tendono a mettere in scena storie che spingono sull’inquietudine più che sull’horror da scarica emotiva. Il non definito diventa l’elemento principale da sviluppare e da insinuare nella mente dello spettatore, e ciò che non viene detto esplicitamente e fatto vedere alimenta la fantasia, in maniera tale che ognuno possa metterci qualcosa di sé, e dei propri turbamenti. Il vero orrore è proprio questo.
L’horror va suggerito, non mostrato
Turbare l’innocenza è un altro degli elementi “sacri” dell’horror
Il fatto che spesso nei film di questo genere vengano messi al centro della storia dei bambini aiuta a creare un cortocircuito emotivo in cui si vede la spensieratezza e la quiete del periodo più innocente della vita turbata da un qualcosa di drammatico e tragico. Ma, del resto, l’infanzia è anche il momento della propria esistenza in cui la mente può piegarsi alla fantasia totale, arrivando a credere l’incredibile, con l’inspiegabile che diventa realtà senza alcun modo di essere contraddetto. I due bambini protagonisti di Skinamarink si ritrovano a commentare quasi con naturalezza la presenza di situazioni inspiegabili all’interno della casa, la scomparsa del padre, il ritrovarsi a giocare ed essere vittime di scherzi paranormali. Alla fine, così come accade in una scena del finale, è uno degli stessi protagonisti che chiede di cambiare tipo di “gioco”. Perché, probabilmente, questo è stato tutto ciò che hanno vissuto i due bambini in quella notte così terribile e assurda: un gioco, per certi versi infinito, e per altri versi, inspiegabile. Ed è questo che il pubblico ha adorato.
Skinamarink è curato con una regia veramente minimale, che non lavora sulla fotografia, o meglio, che cerca di sporcare il più possibile l’immagine e la scenografia, consegnando al pubblico immagini e sequenze in cui è la parte creativa della mente a suggerire cose che non si vedono, o che neanche il regista stesso ha provato a pensare. Del resto l’idea stessa del film nasce come desiderio di dare vita agli incubi raccontati da altri, perciò Skinamarink è diventato un caso anche perché, forse per la prima volta, è stato fatto proprio questo: lasciare spazio alle suggestioni degli spettatori, non proporre veramente un racconto, alimentando le fantasie orrorifiche di chi guarda il lungometraggio. Per certi versi si possono fare delle comparazioni con Paranormal Activity e con Poltergeist, ma in questi casi parliamo di film che hanno spiegato e che mostrano concretamente ciò che accade, mentre Skinamarink è tutt’altro tipo di proposta cinematografica. Ma le atmosfere ed i temi, da un certo punto di vista, tornano. Una casa di notte, dei bambini e la figura genitoriale messa in discussione sono dei temi che hanno reso grande l’horror e certe pellicole in generale. Se volessimo estendere la casa, sostituendola con un albergo, ci ritroveremmo a parlare degli elementi base di Shining, altro film che tende a voler premere più sull’inquietudine che sull’emozione horror pura (anche se i picchi di tensione e paura nel film di Stanley Kubrick ci sono, e come).
Corti horror di successo
Skinamarink è un horror indipendente che, come diversi lungometraggi di successo, nasce come prototipo di cortometraggio, e negli ultimi decenni sono proprio i corti a essere diventati il serbatoio di idee per grandi pellicole dell’orrore. Tutto ciò è già successo con Saw, e con The Witch, ed ora ci ritroviamo a commentare il caso Skinamarink, in attesa che arrivi un’altre brillante idea da essere sviluppata prima in versione cortometraggio, e subito dopo allungata per una storia da un’ora e mezza o due. Negli ultimi anni proprio James Wan ha cercato di sondare il terreno dei registi indipendenti, ingaggiando coloro che hanno proposto idee e corti di valore, ottimi per sviluppare dei lungometraggi. Tra questi citiamo Milk, corto del 2018 di cui anni fa venne resa nota la notizia dell’interesse della Atomic Monster di James Wan per trarne un lungometraggio. Anche in questo caso al centro della storia ci sono un ragazzino che si sveglia di notte, una mamma capace di provocare inquietudine, ed una casa. Forse è questa la ricetta dell’horror perfetto?