Stiamo ormai finendo di smaltire le uscite posticipate a causa della pandemia. Un tracciato (sembrerebbe) finale, accompagnato dall’augurio di non trovarci mai più di fronte alla necessità di doverlo percorrere di nuovo in futuro. L’unica nota positiva di questi ritardi sta nella possibilità di ricostruire con più chiarezza i passi che hanno portato gli autori a confezionare le loro ultime opere in uno strano loop in cui si è spesso assottigliata la distanza tra il prima e il dopo. Facendo meno gli intellettuali, questo “tornare indietro” da anche la curiosa possibilità di osservare interpreti e interpretazioni sotto una luce del tutto diversa rispetto a quella che si avrebbe potuto avere all’epoca, secondo la distribuzione prevista.

Con la recensione di Assassinio sul Nilo, adattamento del romanzo di Agatha Christie con protagonista Hercule Poirot, ancora una volta diretto e interpretato da Kenneth Branagh e scritto da Michael Green, vi parliamo dell’ultimo titolo di questa lista di rimandati, nonché esempio perfetto sia per la ricerca cinefila, che per il fenomeno sopra descritto. Nella pellicola troviamo infatti Armie Hammer nel suo ultimo ruolo (dalla tempistica non felice con il senno di poi) prima dello scandalo che lo coinvolgerà da lì a poco, Letitia Wright, attrice dal futuro incerto a causa di alcune non proprio felici dichiarazioni, e, ancora e poi mi fermo, Gal Gadot, protagonista di una sequenza che per noi, nel nostro tempo, è un anticipo della prossima Cleopatra. Piccoli frammenti rimasti in sospeso in un mondo che è, nel frattempo, cambiato.

Sequel di Assassinio sull’Orient Express, terminato nel 2019 e rinviato più volte fino all’uscita nel 2022, in Italia dal 10 febbraio al cinema distribuito da 20th Century Studios, la pellicola è figlia della volontà dell’autore britannico di creare un universo cinematografico (così tanto di moda in questi ultimi anni), espressa già all’epoca dell’uscita del primo capitolo, con cui ha in comune molte cose.

Tranne per il fatto che è l’esatto opposto.

C’è la riproposizione di un cast corale, ma chiamato ad un interpretazione molto più hollywoodiana che teatrale, in cui ci sono i ritorni dello stesso Branagh e di Tom Bateman, ma in cui contiamo, oltre ai nomi già citati, Emma Mackey, Annette Bening, Russell Brand, Ali Fazal, Dawn French, Rose Leslie, Sophie Okonedo e Jennifer Saunders. C’è la volontà di continuare a regolare il racconto cinematografico secondo un registro in equilibrio tra il dinamismo delle riprese e la fissità della location, facendo prevalere stavolta il primo; ma anche l’interesse reiterato per l’uso dei colori, stavolta caldi e non freddi, e, infine, una costruzione narrativa dalla struttura pressoché identica, ma mossa da una base opposta alla precedente, passione e non raziocinio.

Il simbolo di questo passaggio è proprio il protagonista, maggiormente al centro della storia, armato per essere un perno moderno credibile di un christieverse (scusate) a questo punto sempre più probabile. Per ogni supereroe che si rispetti c’è però bisogno di una storia di origini e per ogni storia di origini valida c’è bisogno di un conflitto.

Una figura come Poirot non può che averlo, appunto, nello scontro tra emotività e logica.

Scusate il tono. Mi odio da solo.

L’amor che move il sole e l’altre stelle

Nel 1937 Agatha Christie scrive uno dei racconti più famosi della collezione di avventure di Hercule Poirot, Poirot sul Nilo, che, come diversi altri dei suoi romanzi, ha avuto un ottimo successo nelle trasposizioni su schermo, sia sul grande con Assassinio sul Nilo del 1978, regia di John Guillermin (musiche di Nino Rota, prego), sia sul piccolo con l’episodio dedicato nella famosa serie televisiva Poirot, era il 2004.

Anche in virtù del discorso degli opposti di cui sopra, era scontato che dopo l’Orient Express si decidesse di portare sullo schermo proprio questo caso.

Ricapitoliamo la trama per i non esperti, avendo cura di precisare che non rispecchia fedelmente quella del romanzo, come per l’adattamento precedente. A partire dalla prima scena tra l’altro, se c’è una cosa che non manca a Branagh e a Green è l’autostima.

Assassinio sul Nilo

La proposizione del triangolo su cui si gioca tutto quanto il caso del film si consuma durante una sfrenata e alquanto disinibita serata in un celebre night club. La tragica atmosfera del sabato sera, ideale per il tradimento d’amore tra i personaggi protagonisti effettivi della vicenda, Simon Doyle (Hammer) e le divine Jacqueline de Bellefort (Mackey) e Linnet Ridgeway Bowers (Gadot). Dall’altra parte del locale osserva il tutto Hercule Poirot (Branagh), elegantissimo e compito, lì non a caso, seduto mentre degusta i dessert migliori del posto, facendo sfoggio di tutto il suo disturbo ossessivo compulsivo.

Stesso luogo per due stati d’animo agli antipodi, che si ritroveranno qualche tempo dopo sulle rive del Nilo.

Lì i neosignori Doyle sono in procinto di consumare la loro luna di miele in compagnia di una corte dei miracoli legata in maniera talmente complessa da far venire il mal di testa solo a ricordare gradi di parentele e sentimenti contrastanti di ognuno verso i festeggiati. La situazione è talmente complessa che la presenza meno ambigua è proprio quella della scartata della serata incriminata al locale, la signorina de Bellefort, che vuole vedere la coppia scoppiare, punto. Chiaro. Forse a lei possiamo aggiungere anche la figura di Bouc, che tra l’altro nel racconto originale neanche fa parte dell’allegra combriccola.

Con questi presupposti inizia la crociera, durante la quale il detective più importante dovrà risolvere un caso che potrebbe cambiarlo come mai prima d’ora.

Baffi d’ansia

Branagh e Green continuano a porre degli interrogativi al centro dei loro adattamenti delle opere della Chistie, nel primo capitolo concentrandosi sulle varie sfumature della moralità e della giustizia, mentre in questo sulle implicazioni a cui può portare il sentimento dell’amore.

Nel farlo partono dal loro protagonista, urlando al pubblico sin da subito la materia su cui si baserà tutto il film. In bianco e nero tra l’altro, un bianco e nero che ricorda il successivo lavoro del sir irlandese, quello che gli è appena valso il record di nomination agli Oscar, il primo a riceverne 7 diverse della storia. Momento Trivia.

Dicevamo, i due lo urlano sin da subito, un po’ per sincronizzare il registro con un cinema mainstream contemporaneo, ma forse anche un po’ per l’ansia, malriposta tra l’altro, di sbaragliare ogni tipo di discussione sulla fedeltà al materiale originale. Non tanto per quanto riguarda la storia, ma più che altro per le tematiche.

Due sentimenti che costituiranno il tallone d’Achille di tutto il film.

Questo secondo capitolo branaghiano sulle avventure di Poirot rispetta la configurazione autoriale usata in precedenza, continuando a sperimentare con successo le derive anche pittoriche della messa in scena, oltre ad una elegia del contrasto tra due estremi, per di più esagerato, del linguaggio registico, ad un tratto attento alla immobile composizione e poi di nuovo in sella alla camera a mano e a carrelli vari.

Kenneth Branagh

Un mix che tra l’altro ben si interfaccia con il contrasto all’interno dell’animo del personaggio, questo si, elemento di novità, che però rischia di infrangersi in un appiattimento metaforico che tradisce una mala gestione degli archetipi del cinema a cui si aspira. Uno squilibrio, che si riversa anche nel ritmo tra il secondo, interminabile, atto e il terzo, proprio dovuto ad un personaggio che dell’equilibrio ha fatto la sua malattia.

La capacità di Poirot di osservare tutto con freddo distacco deriva da un trauma mai superato, rappresentato dai baffi iconici, quelli che la Christie descriveva con così tanta dovizia di particolari.

Sono la sua maschera e il suo mantello, il suo superpotere, ciò che lo rende diverso da tutti gli altri. Ma anche il simbolo del suo dolore.

Assassinio sul Nilo trasforma il caso in una seduta psicoterapeutica per il detective, che si ritrova suo malgrado a fronteggiare i mille volti del mostro che da sempre si porta dietro, lo stesso che lo ha trasformato suo malgrado in quello che è. La metafora nel contenuto è ottima, ma nella forma rischia di vanificare la sua efficacia, troppo preoccupata di inserirsi in un certo filone cinematografico. Per di più il suo mancato bilanciamento va a discapito di tutto l’intreccio del film, rendendolo infine secondario, quasi insignificante. Manca solo la scritta “Poirot will return“.

Assassinio sul Nilo è al cinema dal 10 febbraio 2022 distribuito da 20th Century Studios.

65
Assassinio sul Nilo
Recensione di Jacopo Fioretti

Assassinio sul Nilo arriva finalmente nelle sale dopo più di due anni di uscite posticipate. Si tratta del sequel di Assassinio sull'Orient Express, ancora una volta diretto e interpretato da Kenneth Branagh e scritto da Michael Green, tratto, ovviamente, dal romanzo di Agatha Christie, uno dei più celebri dedicati alle avventure di Hercule Poirot. Concepito in completa antitesi con il film precedente, questo secondo capitolo è una origin story intrecciata con un caso che si fa metafora della lotta a cui deve andare incontro il protagonista per evolvere. Branagh dirige ancora una volta un cast corale con efficace sapienza, gioca con le sfumature cromatiche e si diverte ad estremizzare la mobilità della regia con l'immobilismo della location. Il lavoro sul personaggio offusca però l'intreccio, tradendo un'ansia nella trasposizione che banalizza alcune scelte di scrittura e manifesta una goffa gestione della materia che ha fatto le fortune di un certo club di cinema a cui il film ha fretta di iscriversi.

ME GUSTA
  • L'idea di andare in antitesi con il primo film.
  • Efficace il parallelismo tra lo scontro nel registro filmico e quello interno al personaggio.
  • Il coraggio autoriale di Branagh e Green nel momento dell'adattamento.
  • Chiaro il significato metaforico del caso.
FAIL
  • L'intreccio viene schiacciato, perdendo così la sua carica tensiva.
  • L'equilibrio nel ritmo narrativo difetta in qualche passaggio.
  • L'ansia di sincronizzarsi su un certo filone cinematografico.