I ricercatori di The Markup hanno scoperto che, nonostante le promesse, Facebook metta ancora oggi in giro delle inserzioni che violano le leggi statunitensi e le policy anti-discriminazione. Questa volta la “leggerezza” del social ha preso forma all’interno di pubblicità di carte di credito e di servizi finanziari che miravano a fasce anagrafiche ben precise.
Nel 2019, due aziende – Chime e Aspiration – erano già state motivo di un’indagine di tribunale. Sempre lo stesso anno, ma in un caso separato, Facebook aveva deciso di patteggiare con i gruppi dei diritti civili e, tra le altre, aveva accettato di proibire che le pubblicità di affitto e vendita casa, lavoro e opportunità di credito potessero imporre limitazioni d’età, di etnia o di genere.
Allora come sempre, la Big Tech sostenne di non essere responsabile per quanto viene pubblicato sui suoi portali, una posizione che certamente non ha ancora oggi alcuna convenienza a modificare. Oltre a Chime e Aspiration, lo staff di The Markup ha scoperto che lo stesso trucco sia applicato anche Hometap e Varo.
Contattate dai ricercatori, Chime, Aspiration e Facebook si sono rifiutate di fornire il loro punto di vista, Hometap ha sostenuto di non essersi resa conto della cosa e sta provvedendo a sistemare, mentre Varo è stata più sibillina, accennando al fatto che il suo reparto marketing fosse in stretto contatto con il social per assicurarsi che tutto fosse a norma.
Gli “inciampi” di Facebook nel campo della discriminazione non sono rari: nonostante i suoi algoritmi siano eccellenti nell’imporre alcune censure che danneggerebbero i suoi interessi economici, l’azienda si mostra decisamente più rilassata nel normare tutto ciò che invece le porta introiti.
In pratica, il gestionale dei contenuti promozionali prevede che siano i clienti ad autodenunciare la loro posizione professionale, quindi basta che un inserzionista decida di “dimenticarsi” di identificare la società come istituto di credito ed ecco che può scegliere gli scaglioni demografici che più lo aggradano.
Un “bug” gestionale apparentemente semplice, ma che potrebbe essere effettivamente impossibile da correggere. But Brody, avvocato per i diritti civili, cerca infatti di spiegare la situazione facendo notare che l’intero business model del social sia basato sulle pubblicità comportamentali e che pertanto sia molto difficile prendere le distanze da simili atteggiamenti discriminatori.
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