La recensione di Mank, il nuovo incredibile film di David Fincher, lettera d’amore al grande cinema del passato attraverso una delle pietre miliari della settima arte, Quarto Potere, visto dal punto di vista di chi l’ha creato su carta: Herman J. Mankiewicz.
Orson Welles e il suo Quarto Potere sono tra le figure più controverse della storia di Hollywood. Un giovanissimo 24enne che ha stregato l’intera industria, ammaliandola e spaventandola, e considerato tutt’ora il più grande regista di tutti i tempi. Welles è stato tanto famoso per il suo carisma e geniale talento quanto per il suo carattere non particolarmente facile e questo l’ha potuto sperimentare bene sulla propria pelle lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, l’uomo dietro la stesura della sceneggiatura di Quarto Potere.
La recensione di Mank ci porta ad esplorare una delle pellicole più suggestive, complesse ed ammalianti di David Fincher. Una pellicola che apparentemente vi potrà sembrare differente dallo stile del regista, ma che invece conserva in sé l’amore e il gusto di esplorazione, approfondimento e rappresentazione delle più controverse figure del nostro mondo, tanto reali quanto irreali. Ma, soprattutto, Fincher mette le mani in pasta su uno degli argomenti più spinosi della storia del cinema, sul quale sono state già scritte fiumi di parole:
di chi è Quarto Potere?
Ecco, questa è una domanda interessante. La domanda che funge da motore di tutta la struttura che abilmente il regista americano mette in scena attraverso una serie di meccanismi, omaggi allo stesso cinema di Welles e a quello della Hollywood degli anni ’30/40, e anche grazie i suoi incredibili personaggi, primo fra tutti Gary Oldman.
Indietro e avanti nel tempo: alla ricerca di Mank
Cerchiamo di partire dall’inizio, per quanto possibile, trovandoci immediatamente nel 1940 di Orson Welles ma al posto del suo Charles Foster Kane abbiamo lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, infortunato e costretto a letto ma, soprattutto, sobrio.
Comprendiamo fin da subito che con far giocoso Fincher ci ripropone la stessa struttura non lineare, e le stesse inquadrature, di Citizen Kane, appunto Quarto Potere.
In una tranquilla casa di campagna, accompagnato unicamente dalla propria infermiera e dalla nuova stenografa (Lily Collins), Mank è incaricato di creare una brillante sceneggiatura per il “ragazzo d’oro” di Hollywood, George Orson Welles (Tom Burke). Tra una frenetica battitura e un battibecco tra sceneggiatore e stenografa, ci ritroviamo a compiere un viaggio frammentario tra “presente” e 1930, 1933 e 1934 dove troveremo Mank – spesso e volentieri ebbro di vita ma anche di alcool – passare da un set ad una write room, dal salotto del milionario William Randolph Hearst (Charles Dance) ai battibecchi con l’astioso – ma anche astuto – direttore dello studio cinematografico Louis B. Mayer (Arliss Howard), fino ad arrivare ai momenti più dolci con la moglie Sara (Tuppence Middleton) o con la starlet Marion Davies (Amanda Seyfried).
A cornice di questo quadro, troviamo un contesto storico molto difficile
A cornice di questo quadro, troviamo un contesto storico molto difficile: la sala e l’industria cinematografica è in fallimento perché il popolo non ha soldi a causa della crisi finanziaria; l’ascesa di Hitler crea non poche pressioni politiche e il diverbio con i socialisti si fa sempre più acceso ed aspro.
Mank sembra essere quasi nauseato da come Hollywood venga intaccata da questo morbo, quasi come se fosse un veleno, un virus ed è forse proprio questo periodo storico, ed i suoi personaggi, che lo conducono sulla strada del ragazzo d’oro e dell’opera cinematografica che lo immolerà tra i grandi.
Una lettera d’amore al cinema
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una sempre più crescente esaltazione della Hollywood degli anni ’30/’40/’50. Una macchina grandiosa e incredibile, fabbricatrice di sogni ma anche di tante illusioni dove, appunto, non tutto l’oro luccica.
David Fincher non si esime nel dare un ritratto, per quanto romanzato, veritiero di un periodo che non è stato tutto rosa e fiori.
Non lasciatevi ingannare troppo dal tripudio di passione, amore e ossessione nei confronti del cinema, Mank è un film che rappresenta un presagio di rovina quanto un parziale riscatto sociale e morale.
Fincher mette su un vero e proprio circo di personaggi tridimensionali e personaggi bidimensionali, molti dei quali reali (star immortali e star dimenticate nel tempo, registi, produttori, sceneggiatori) ma tutti incorporati all’interno di una struttura, di uno spettacolo, volutamente artificiale.
In che senso, vi starete chiedendo? Nel senso che Fincher sa esattamente quali erano i grandi difetti dell’industria cinematografica di un tempo, ovvero gli stessi più ingigantiti che si possono ritrovare ancora oggi e che rendono la macchina hollywoodiana un pericoloso circolo vizioso, ma proprio per questo motivo li amplifica attraverso i dialoghi, le relazioni, i paradossi tra personaggi e il modo di vivere del suo protagonista.
Non a caso stiamo parlando della realizzazione di un film attraverso un altro film che gioca con le caratteristiche tipiche del cinema di un tempo. Prima di tutto l’uso del bianco e nero argenteo con ombre nitide realizzate grazie alla maestria il direttore della fotografia Erik Messerschmidt. Ovviamente il rapporto del film non può essere lo standard di adesso, ma bensì 2,20.1 (non lo stesso, però, di Quarto Potere che era un 1,37:1) che esalta la profondità dei campi lunghi e dei personaggi che si perdono in questi.
Sembra quasi di vedere assistere alla risurrezione degli spettri della vecchia Hollywood
Sembra quasi di vedere assistere alla risurrezione degli spettri della vecchia Hollywood che si aggirano come anima in pena, febbricitanti di una vita che non gli appartiene più ma che, proprio per questo, ci appaiono ancora più carichi di vita, di passione e ardore nei loro verbosi dialoghi alterati dai fumi dell’alcool, successo e prestigioso, quasi volendosi illudere che lì fuori il mondo è sull’orlo dell’ennesima crisi mondiale.
Chicca gustosa è l’uso delle indicazioni tipiche della sceneggiatura usate per aprire una scena, che ci portano da un anno all’altro: ESTERNO – GIORNO – STUDIOS HOLLYWOOD – 1934 (FLASHBACK). Ovviamente con tanto di suono di dita che battono a macchina.
Parlando di suono, anche il sonoro gioca una parte fondamentale. Tanto che lo vediate in italiano quanto che lo vediate in lingua originale, la pellicola sembra essere registrata proprio con la presa diretta dell’epoca, dandoci quindi delle voci più ovattate e lontane, restituendo la sensazione di star di fronte ad un film di altri tempi. Stessa identica cosa per l’uso di una grana più grezza e sporca che presenta, di tanto in tanto, delle bruciature sullo schermo a causa dell’usura del tempo e della fragilità del materiale.
Gary Oldman, l’uomo dai mille volti
Il Mank di Gary Oldman è quasi un Achab costretto a letto che insegue la sua grande balena bianca, ma al tempo stesso è anche Kane, è anche la voce di quella Hollywood più irrequieta, appassionata e rivoluzionaria. È un personaggio scomodo, un po’ come scomodo lo è stato lo stesso Oldman. Un genio mai vinto eppure consunto dalle meccaniche dell’industria, dal tempo, dalle sue idee, dalla sua anima. Un nostalgico alla ricerca del suo passato e del suo presente, ma incapace di vedere il futuro.
Un po’ come accade nei diversi ruoli scelti da Oldman, anche Mank potremmo definirlo una strana creatura. Un uomo che si manifesta proprio attraverso le sue parole, il suo modo di fare tra il cinico e il cuore tenero, tra la lingua tagliente e lo sconforto quando si ritrova nella solitudine a fissare la notte pensando a quelle che, chissà, forse avrebbe potuto ancora fare.
Nonostante la grande differenza di età, perché ricordiamo che Mankiewicz nella decade che va dal ’33 al ’42 aveva tra i trenta e i quarant’anni, Gary Oldman riesce come sempre a far parlare il personaggio attraverso la fisicità, i movimenti del corpo che enfatizzano l’identità di questo personaggio come scrittore ed oratore. Sembra quasi un vecchio rottame, ondeggiante, poco bilanciato, tenuto insieme più dal volere degli altri che da sé stesso.
Mank è un prestigiatore di parole.
Inoltre, il suo modo di parlare, la cura per le parole scelte: affilate e appuntite. Pronte per colpire. Tagliare. Umiliare ma mai in modo volgare. Spicca sempre la sua grande intelligenza, la sua cultura, il suo essere comunque un letterato e non un ignorante.
Mank è un prestigiatore di parole. Abilissimo nel tracciare la vita degli altri, ma così sprovveduto nei confronti della propria esistenza. Ed in questo Gary Oldman è magistrale, talmente tanto che tutti gli altri personaggi vengono completamente messi in ombra, ad eccezione del finale.
Fincher e l’arte dell’inganno
Chi mastica un minimo la filmografia di David Fincher sa benissimo essere un artista a cui piace tanto giocare con le storie, con i personaggi, prendendo un po’ in giro gli spettatori per poi porli di fronte a rivelazioni incredibili. Prendiamo, per esempio, alcuni dei suoi classici come Fight Club o 7even, ma anche Gone Girl – L’Amore Bugiardo o la più recente serie TV (di cui siamo tutti ancora orfani) Mindhunter.
Cosa avviene, quindi, in Mank? È semplice!
In quello che potremmo quasi definire un gioco di scatole cinesi, dove una ne nasconde un’altra: prende un personaggio – in questo caso quello di Mankiewicz (il protagonista della storia) e attraverso il suo percorso lo sovrappone a quello di Charles Foster Kane. E come? Prima di tutto, giocando con diverse analogie quali la solitudine di entrambi gli uomini, troppo orgogliosi per chiedere aiuto, indisponenti, burberi e apparentemente anaffettivi; inoltre, usando tanto la stessa struttura frammentaria ed in flashback quanto la profondità di campo – spesso accompagnate da una rivelazione – che Welles usò all’interno del suo film.
In più, negli anni e nelle visioni di Quarto Potere, è sempre stata palese una certa somiglianza – non solo per esserne stato l’interprete – tra Orson Welles e Kane, probabilmente dovuta anche alla tanto dibattuta paternità dell’opera. Da questo punto di vista ci rendiamo conto che Fincher opera in modo tale da trasformare il creatore in creatura (topos tanto amato all’interno della letteratura); sarebbe un po’ come a dire che se Mank è Kane, Oldman è più Welles che “dirige” Mank, ovvero Kane. Non a caso, il finale diventa più emblematico che mai, dando corretta chiave di lettura allo spettatore con un gioco di ombre che, ancora una volta, riprende un’iconica scena del “famigerato” film di Orson Welles.
Se guardando Mank vi sembrerà di assistere ad un dejavù non vi preoccupate
Se guardando Mank vi sembrerà di assistere ad un dejavù non vi preoccupate, è tanto normale quanto voluto. Abbiamo già detto come Fincher omaggi quella Hollywood e i suoi protagonisti e lo fa fin dalla scelta della scrittura della pellicola, l’uso del bianco e nero, della pellicola e grana rovinata dal tempo, con lo stesso sonoro tipo del cinema degli anni ’30/’40. In più crea un interessantissimo intreccio di storia nella storia, mescolando gli eventi della vita di Herman J. Mankiewicz con quelli della vita di Charles Foster Kane che, a sua volta, era stato ispirato dall’editore milionario William Randolphy Hearst.
E secondo questa logica, anche tutti gli altri personaggi secondari prenderanno un proprio posto all’interno dell’opera, sovrapponendosi a quelli di Quarto Potere, a partire dalla stenografa Rita Alexander fino ad arrivare all’attrice Marion Davis.
Tirando le somme, cosa fa allora David Fincher con Mank? Ricrea Quarto Potere dal punto di vista del suo vero padre, appunto Herman J. Mankiewicz. Restituisce la paternità dell’opera al suo vero creatore ma, con un perfetto inganno, proprio durante la cerimonia degli Oscar, sarà la figura di Welles a trionfare su tutti quanti. O meglio, sarà la sua ombra, ancora una volta, a mettere in ombra (perdonate il gioco di parole) l’autore che gli ha permesso di ascendere all’Olimpo dei grandi con uno dei film più importanti della storia, confermando inevitabilmente che Quarto Potere è George Orson Welles.
Ed in conclusione della recensione di Mank, tutto quello che ci rimane da dire è che David Fincher ce l’ha fatta! Si, ce l’ha fatta a fare un film sorprendentemente accattivante, ingannevole ma anche affascinante. Un film che farà brillare gli occhi all’appassionato di cinema, dandogli l’onore e il piacere di vivere una delle più controverse pagine della cinematografia mondiale, ma offrendo la possibilità anche al profano di perdersi nei meandri di una storia non così conosciuta, offrendo un punto di vista atipico e al tempo stesso sorprendente.
Un film che sa trascinare, prendere confondere. Sa esplorare le acque più torbide e profonde del cinema, ma sa soprattutto mostrare la grande magia che, vi è sempre vi è stata e – si spera – sempre vi sarà, ha il potere di meravigliare ed emozionare.