Questa settimana Twitter ha segnalato come fuorviante un post di Donald Trump. Il Presidente è passsto al contrattacco, firmando un ordine esecutivo che potrebbe cambiare per sempre l’internet governance americana.

È la prima volta che Twitter è arrivato a mettere in dubbio le parole del Presidente degli Stati Uniti d’America in modo così esplicito.

Ieri sera Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che dà mandato alla FCC e alla FTC di riformare una parte della Section 230 dell’Online Decency Act, la legge che dà alle piattaforme tech immunità per i contenuti pubblicati dai loro utenti.

 

 

 

Twitter e i post della politica

Twitter negli anni ha cambiato in più occasioni la strategia da usare contro i post più controversi della politica.

In passato il social aveva spiegato che un tweet di un politico sarebbe potuto rimanere online anche nel caso in cui avesse violato le policy della piattaforma, ad esempio quelle sul razzismo.

Alla base di questo approccio c’è l’idea che i post dei politici siano d’interesse pubblico, sempre, e che rimuoverli priverebbe l’opinione pubblica di un importante strumento per giudicare l’operato e la condotta degli eletti. Contestualmente, il social si è riservato il diritto di non bannare dalla sua piattaforma le figure chiave della politica e dei governi mondiali.

Twitter esiste per servire e aiutare lo sviluppo del dibattito pubblico. I leader mondiali eletti, per via del loro impatto sconfinato sulla nostra società, ricoprono un ruolo fondamentale in questa discussione.

Bloccare un leader mondiale da Twitter, o rimuovere un suo tweet controverso, significherebbe nascondere informazioni importanti che, al contrario, le persone hanno tutto il diritto di vedere e discutere.

scriveva a gennaio del 2018 l’azienda nel suo blog ufficiale.

Questo approccio ovviamente non è privo di conseguenze, basti pensare al rischio di creare un’impressione di impunità della politica: deputati e presidenti si ritrovano nella posizione di poter violare le policy del social, anche quelle che provocherebbero senza dubbio il ban per qualsiasi altro utente, con ovvio senso di frustrazione per quest’ultimi.

È il motivo per cui Twitter negli ultimi mesi ha deciso di adoperare un approccio meno passivo alla questione, dapprima segnalando alcuni tweet come controversi —e spiegando quindi che, nonostante non siano stati cancellati, gli utenti si ritrovano davanti ad una violazione delle policy della piattaforma— e infine con uno strumento ancora più completo, che è quello usato contro gli ultimi tweet di Trump.

Ad inizio del 2020 , come vi avevamo anticipato in questa news, Twitter aveva iniziato a menzionare la possibilità che i post dei politici venissero sottoposti a fact-checking.

Il social quindi non soltanto ha iniziato ad indicare quando un tweet di un politico contiene informazioni fuorvianti o addirittura totali falsità, ma a questo aggiunge una serie di link a siti di debunking, fornendo quindi tutti gli strumenti per farsi un’opinione sana sulla questione in gioco.

E in tutto questo Facebook cosa fa? Il social, attraverso il suo CEO Mark Zuckerberg, ha ribadito in ogni occasione possibile che non intende mettere il becco sulle esternazioni dei politici, rifiutandosi di ricoprire il ruolo di “arbitro della verità”. Una posizione che è stata ribadita dal fondatore di Facebook proprio nella giornata di ieri.

 

 

 

Il tweet “casus belli” di Donald Trump

Quest’ultimo approccio è piuttosto recente, ed adesso, per la prima volta in assoluto, è stato usato contro il Presidente degli USA Donald Trump.

La scelta del social si è dimostrata piuttosto divisiva, sia perché non tutti sono d’accordo che sia compito delle aziende private mettere il becco su ciò che dicono i politici, sia perché per qualcuno si è trattato di un atto tardivo.

Martedì Trump aveva infatti più volte diffuso e sostenuto una tesi cospirazionista che accusa il politico Joe Scarborough di essere il diretto responsabile della morte di Lori Klausutis, una sua ex collaboratrice. Tesi che non ha nessun fondamento di verità.

Twitter non è intervenuto sui post gravemente diffamatori nei confronti di Scarborough ma su un’altra serie di tweet contro il voto per corrispondenza. Di tutte le uscite del Presidente non è esattamente la più “sgraziata”.

 

Donald Trump ha effettivamente sostenuto pubblicamente che votare per posta avrebbe automaticamente implicato dei brogli, quando questo è quantomeno opinabile, eppure da parte del mondo dei costituzionalisti non sono mai mancate serie perplessità sul voto per corrispondenza.

Voto per corrispondenza = brogli? No, ma…

È il motivo per cui nella stragrande maggioranza delle democrazie occidentali il voto per corrispondenza non esiste e, laddove esiste, viene usato per un numero estremamente contenuto di elettori come quelli che non possono materialmente recarsi al seggio. In Italia il voto per corrispondenza viene usato esclusivamente per la circoscrizione Esteri, quella introdotta dalla Legge Tremaglia e che consente alle persone iscritte all’Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) di eleggere un ristretto numero di deputati e senatori.

Trump dice che usare il voto per corrispondenza per le prossime presidenziali porterà automaticamente a dei brogli —arrivando perfino a dire che ci sarebbero già in corso delle operazioni per frodare gli elettori— sta ovviamente sconfinando nel regno delle falsità. Eppure il rischio è che passi il messaggio che mettere in dubbio la legittimità del voto per posta equivalga a mentire, quando questa è una tesi sostenuta da una buona fetta degli esperti di processi elettorali.

È la ragione per cui fino ad adesso si è stati molto cauti nel affidare ai social network il delicato compito di filtrare le dichiarazioni della politica: c’è il rischio che la toppa sia peggiore del buco, e a prescindere, non tutti sono proprio d’accordo nel dire che sia una cosa salutare per la democrazia dare un simile potere —quello di mettere alla gogna i politici, influenzando allo stesso tempo gli elettori— ad un’azienda quotata in borsa.

 

 

 

La reazione furiosa di Trump

La reazione di Donald Trump non è mancata e corrisponde ad una dichiarazione di guerra che rischia di avere effetti gravi e duraturi sulla tenuta del web per come lo conosciamo oggi.

 

 

Verso le 22 di ieri sera, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo chiamato “Preventing Online Censorship” che dà mandato alla FCC di rivedere una parte della Section 230 dell’Online Decency Act, uno dei più importanti pilastri dell’internet governance americana.

La Sezione 230 esenta le piattaforme tecnologiche da conseguenze legali per i contenuti pubblicati dai loro utenti.

Significa che i social network come Twitter e Facebook non sono considerati alla stregua di un editore, e non rispondono dei contenuti pubblicati dagli utenti, a differenza di un publisher che è direttamente responsabile degli articoli pubblicati sulle sue testate. In UE funziona in modo simile.

L’Online Decency Act è una legge del 1996 ed è nata in un contesto in cui i social network non esistevano, e internet era una realtà radicalmente diversa da quella di oggi.

Nonostante la legge abbia sulle spalle quasi 24 anni è apparsa fin da subito attuale e adatta a regolare anche i social network. Pensateci. La Sezione 230 fa sì che se una persona produce un contenuto diffamatorio usando Facebook o Youtube, la parte offesa possa portare in tribunale soltanto l’autore del post o del video, e non anche la piattaforma.

Un’ipotesi diversa significa mandare social come Twitter e Facebook —rispettivamente con circa 330 milioni e 2.6 miliardi (!) di utenti attivi mensilmente— all’aria. L’idea che i due siti filtrino ogni singolo contenuto degli utenti, o si assumano la responsabilità legale delle azioni di quest’ultimi, è semplicemente impraticabile. Laddove venissero considerate alla stregua di un quotidiano, cioè responsabili di ogni contenuto pubblicato, crollerebbe l’intero sistema.

Lo scudo di immunità offerto dalla Section 230 non è privo d’eccezioni, una delle più importanti è stata introdotta con una legge del 2018: il FOSTA Act, una legge che di fatto accentua le responsabilità delle aziende tech nei confronti dei crimini sessuali commessi attraverso le loro piattaforme. L’introduzione di questa misura non è stata priva di conseguenze, basti pensare a siti come Craiglist che hanno dovuto portare avanti una politica di tolleranza zero nei confronti degli annunci delle sex worker.

Nonostante la Section 230 sia fondamentale perché il mondo del web continui a funzionare nelle modalità odierne, in passato non sono mancate critiche pertinenti alla portata dell’immunità offerta dalla legge. Pensate ad esempio alla recente truffa perpetuata attraverso le inserzioni di Google e Youtube a danno di Ripple Lab, una storia di cui vi ho parlato sulle pagine di Lega Nerd. In quel caso tutti gli elementi fanno pensare che il lassismo di Google abbia creato un serio danno reputazionale ed economico all’azienda, ma il caso portato dalla Ripple davanti ai giudici non è poi così solido. Nonostante i truffatori abbiano perpetuato le loro truffe usando gli strumenti offerti da Google, la Section 230 renderà estremamente difficile per l’azienda inchiodare Google alle sue responsabilità. Proprio per questo motivo, Ripple aveva impostato la sua causa sulla violazione del copyright —una delle altre poche eccezioni all’immunità offerta dal Communications Decency Act—, ma non è detto che anche così facendo riuscirà ad averla vinta in aula.

Contestualmente, a lungo gli attivisti progressisti hanno chiesto che la sezione 230 venisse riformata per evitare che i social network rispondessero facendo spallucce davanti al problema dell’hate speech perpetuto usando Facebook, Twitter e Youtube.

 

 

Trump non può emendare o abrogare l’Online Decency Act in autonomia, non ne ha il potere. Pertanto l’ordine esecutivo prevede un pacchetto di richieste indirizzate alla FCC, la Federal communications commission, e alla FTC.

La più importante prevede che la FCC, dopo un iter consultivo di 60 giorni con la National Telecommunication and Information Administration, reinterpreti parte della Section 230.

 

 

Oggi la legge prevede che le piattaforme perdano l’immunità qualora, nella moderazione dei contenuti pubblicati dai loro utenti, non agiscano in buona fede. La Casa Bianca sta chiedendo formalmente alla FCC di specificare il significato di questa espressione, di fatto creando una serie di regole che, se violate, espongano i social network al rischio di dover rispondere dei contenuti pubblicati dai loro utenti.

Perché a Trump interessa tanto? Perché il mondo conservatore americano è ossessionato dall’idea che il Big Tech abbia un’agenda politica mirata a sabotare il Partito Repubblicano a vantaggio dei democratici — e l’ultimo intervento di Twitter ne sarebbe la prova definitiva.

 

 

Per Trump la riforma della Section 230 diventa lo strumento per imporre alla Silicon Valley di rispettare la neutralità politica.

L’ordine esecutivo prevede anche la creazione di un tool per permettere ai cittadini americani di segnalare eventuali episodi di censura arbitraria alla FTC. Assieme alla FCC quest’ultima authority avrebbe dunque il compito di determinare se una piattaforma tech sta agendo in contrasto con il principio di buona fede, sanzionandola con la perdita dell’immunità.

Una seconda disposizione impedisce poi alla agenzie federali di acquistare spazi pubblicitari sulle piattaforme che siano state giudicate “parziali” attraverso il nuovo iter che FCC e FTC sono incaricate di creare.

Vale la pena di specificare che sia la FCC che la FTC sono due enti autonomi rispetto alla Casa Bianca, pertanto una richiesta di riformare il 230 non implica nessun automatismo, e non è detto che decidano di modificarlo e di farlo nel modo auspicato dal Presidente.

Dopo anni di bordate verbali e minacce di regolamentazione da parte di Trump e dei suoi funzionari di punta, questo ordine esecutivo potrebbe essere l’attacco più significativo della Casa Bianca contro la Silicon Valley. Potrebbe anche sollevare nuove domande spinose e attuali sul Primo Emendamento, sul futuro della libertà d’espressione online e su fin dove possa spingersi il potere della Casa Bianca di influenzare, in modo opportuno e legale, le decisioni che le aziende private compiono sulle loro app, siti e servizi.

scrive Tony Romm sulle pagine del Washington Post. Piuttosto eloquente.

Secondo Kate Klonick, una professoressa di Internet Law della St. John University, l’ordine esecutivo rischia di mandare all’aria oltre 25 anni di giurisprudenza sulla Section 230 e, in molte delle sue parti, non sembra essere affatto attuabile: «Sarà sgretolato piuttosto rapidamente dalle ingiunzioni o dalle liti in aula», ha detto.

Gli effetti dell’ordine esecutivo di Trump, se ce ne saranno, non saranno immediati, ma si faranno vedere solamente molto più in là con il tempo. Potenzialmente l’iter di riforma della legge potrebbe concludersi dopo le elezioni di novembre, quando la Casa Bianca potrebbe essere abitata da un nuovo inquilino.