Recensione Ad Astra: quel buco nero che è il passato

Ad Astra

Brad Pitt interpreta e produce il nuovo film di James Gray, presentato in concorso a Venezia 76, in cui è un astronauta di un futuro prossimo che parte alla ricerca del padre. Tra Malick, Kubrick e Gravity, la fantascienza diventa un modo per parlare di cosa vuol dire essere umani.

Che fosse per immortalarle sulle pareti di una grotta, o per orientarsi nella navigazione, l’uomo, fin dall’alba dei tempi, ha sempre guardato alle stelle. Profondamente legati alla Terra e incapaci di volare, gli esseri umani sono irrimediabilmente attratti dal cielo, tanto da ingannare la natura e creare marchingegni in grado di dominare la gravità, riuscendo così ad andare sempre più in alto, sempre più lontano. Perfino sulla Luna.

 

 

Quanto più ci si allontana dalla superficie terrestre, diventando leggeri, immersi nel silenzio, tanto più si comprende la natura umana: è un paradosso, ma tutta la migliore letteratura di fantascienza dimostra che è così. Un po’ come quando si cerca di sfuggire al proprio passato: anche se si cambia città, lavoro, amicizie, chi siamo stati rimane sempre con noi.

Un’ombra silenziosa da cui non possiamo scappare.

Non poteva quindi esserci regista migliore, almeno sulla carta, di James Gray per dirigere Ad Astra, film presentato in concorso alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nelle sale italiane dal 26 settembre.

Da sempre ossessionato dal passato e dal peso che ha nelle nostre vite, l’autore di Two Lovers, I padroni della notte e Civiltà perduta si immerge nello spazio, in un futuro prossimo (siamo nel 2120), mostrandoci tutta la fragilità degli esseri umani attraverso gli occhi di Roy McBride (Brad Pitt), astronauta della NASA mandato in missione per scoprire cosa è successo su una stazione di osservazione distrutta da un sovraccarico di energia proveniente da Nettuno. Proprio suo padre, Clifford McBride (Tommy Lee Jones), è scomparso dieci anni prima mentre cercava di trovare vita extraterrestre su Nettuno.

 

 

 

 

 

 

Per aspera ad astra

Brad Pitt si impegna a reggere l’intero peso del film sulle sue spalle, lavorando in sottrazione, usando ogni piega del volto, ogni lampo dello sguardo.

Ad Astra aveva tutte le carte in regola per diventare un classico della fantascienza: effetti speciali all’altezza, un regista dallo sguardo ben preciso a supervisionare tutto e un protagonista (anche produttore) finalmente alla prova in un ruolo in grado di metterne in evidenza il talento. Eppure, proprio come un guasto a bordo di un’astronave, qualcosa è andato storto: Brad Pitt si impegna a reggere l’intero peso del film sulle sue spalle, lavorando in sottrazione, usando ogni piega del volto, ogni lampo dello sguardo, accompagnandoci con gli occhi in un viaggio che è interiore più che ad anni luce di distanza.

 

Proprio come un guasto a bordo di un’astronave, qualcosa è andato storto.

Nonostante il volto del divo sia estremamente umano, il film fallisce nel creare empatia: la voce narrante fuori campo e le riprese delle stelle, che ricordano tanto l’ultimo Terrence Malick, cominciano presto a non giocare a favore del film, che spiega molto ma emoziona poco, finendo per diventare presto un collage di scene iconiche prese da altri film di ben più alta levatura. C’è un po’ di 2001: Odissea nello spazio, un po’ di Interstellar (a cominciare dal direttore della fotografia, Hoyte van Hoytema), di Solaris, di Sunshine, molto di Gravity e perfino qualcosa di film minori come Pandorum.

Tranne un’unica scena originale (l’inseguimento in macchina a gravità zero), Ad Astra, nonostante si prenda molto sul serio, rimane sempre in superficie, enunciando profonde riflessioni invece che suscitarle nello spettatore, che si sente presto come il povero Frank Poole, abbandonato nello spazio freddo da HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio.

 

 

 

 

 

 

Il passato non perdona

Abbagliante dal punto di vista visivo, Ad Astra non riesce mai a fare il grande salto, a catturarci davvero.

Il passato non perdona quindi, sopratutto quello di James Gray: se per il maggiore Roy McBride l’assenza del padre è diventata il buco nero emotivo della sua esistenza, dal regista che, in modo così raffinato, ha creato storie in grado di scavare a fondo nella psiche umana ci aspettavamo di più. È come se, allargando distanze e spazi, Gray non si trovasse a suo agio, finendo per perdersi proprio come il suo protagonista. Così come perse sono anche Ruth Negga e Liv Tyler, usate per una manciata di minuti, in ruoli poco rilevanti.

Abbagliante dal punto di vista visivo, Ad Astra non riesce mai a fare il grande salto, a catturarci davvero: un po’ come se il maggiore Tom di Space Oddity, brano immortale di David Bowie, non solo non riuscisse a sentire il grido disperato di dolore del protagonista, ma se ne fosse proprio andato, alla ricerca di lidi meno congelati e distanti.

 

 

 

 

Ad Astra è nelle sale italiane dal 26 settembre.

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