Nel terzo giorno del 71° Festival del Cinema di Cannes facciamo un salto negli anni ottanta con il regista Kirill Serebrennikov che con Leto ci porta in un viaggio nella rivoluzione musicale del periodo a scoprire come un gruppo di giovani artisti vorrebbe far valere le sue idee in una Russia dove la libertà d’espressione è un’utopia ancora lontana.
Estate. Siamo nella Leningrado degli anni ’80 e la Russia sembra ancora essere un luogo dove la stessa parola libertà è un concetto molto differente dal nostro. Un luogo dove l’estro creativo, artistico e rivoluzionario è soppresso sul nascere, ma nonostante questo la scena del rock underground è in fermento, pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Led Zeppelin, David Bowie, Lou Reed, i T-Rex, risuonano nelle case dei giovani artisti, nei luoghi nascosti di ritrovo o all’aperto per godersi con spensieratezza l’estate. Il sogno della rock star è appena nato, anche in Russia, e tra questi il cantante Mike, con la sua aurea misteriosa e la sua voca inconfondibile, sembra essere il rappresentante di un movimento che non vuole morire sul nascere.
A seguire la sua scia c’è Viktor Tsoi, un giovanissimo artista con il grande sogno di diventare proprio una rock star, inconsapevole che l’incontro tra di lui, Mike e la moglie di quest’ultimo, Natasha, cambierà per sempre le loro vite.
La trama di Leto – in italiano estate – è molto semplice, comune e, sicuramente, già vista da molti di noi. Una trama che, in fondo, è alla base proprio della vita di quelle leggende a cui fanno riferimento i protagonisti della storia. Leggende che all’interno del film risuonano continuamente, spesso alternandosi al racconto come dei veri e propri videoclip.
Si, perché nella prima parte di Leto sembra di vivere in un costante videoclip dove la parola d’ordine è sicuramente contraddizione. Da una parte la Russia rigida, dove ai concerti si è costretti a stare seduti, non cantare o muoversi troppo, non sollevare cartelloni. Dall’altra parte l’aria rivoluzionare degli anni ’80: la musica, la libertà sessuale, d’espressione.
La Musica che parla della società, del contesto politico, ma anche dei sentimenti e dei giovani.
Viktor e Mike diventano ben presto le due facce della stessa medaglia.
Il primo è la voglia di scoprirsi, di farsi scoprire, vivere e cambiare, rivoluzionare quella musica che ha dato vita alla sua passione con un sound diverso. Il secondo è ciò che l’inizio degli ottanta ha raccolto dalla cultura musicale della seconda parte dei settanta, con la sua malinconia, il sorriso amaro, lo sguardo coperto dagli occhiali da sole.
Al centro di questo si colloca Natascha che, un po’ come lo spettatore, si trova nel mezzo di questo cambiamento. Affascinata dal nuovo, ma costantemente tormentata e innamorata dal vecchio.
Una sorta di nostalgia drammatica che nella pellicola si può respirare in ognuno dei personaggi. Interessante è come il regista Kirill Serebrennikov rappresenti questa rivoluzione; o meglio, voglia di rivoluzione.
Perché la maggior parte dei personaggi sembrano essere intrappolati in una stasi, un desiderio feroce che vorrebbe portarli a cambiare le cose, spingendo le masse a cantare, ballare, urlare nel metro, nei tram e negli stadi, cosa che puntualmente però non succede.
All’interno del film c’è un personaggio che non ha nome, non riusciamo mai a capire se esista o meno, se non quando finalmente riusciamo ad associarlo a quel moto rivoluzionario insito all’interno dei protagonisti. Biondo, vestito bene, con gli occhiali.
Sussurra ai personaggi, li porta a seguire la propria mente, i propri desideri e ci mostra come sarebbe se… Ma poi ci informa che nulla di tutto ciò è davvero avvenuto.
Non a caso la pellicola è interamente girata in bianco e nero. I brevi momenti di colore li troviamo solo quando fotografi o cameramen immortalano i composti concerti dei protagonisti o quando il sogno, la proiezione di quella rivoluzione, prende vita sullo schermo.
Un videoclip continuo, altalenante e instabile. Instabile, come purtroppo, è anche il film. Serebrennikov sa esattamente cosa vuole raccontare, eppure durante la corsa il racconto si sfilaccia, si ramifica fin troppo.
Le vite dei protagonisti si dividono, poi ritrovano, poi dividono ancora. Si passa dai dialoghi più fitti al silenzio, da un’immagine più sospesa e lenta ad una più dinamica, che confonde, non tiene del tutto l’attenzione.
Ci si sposta dalla musica alla cultura, poi alla malinconia di questo triangolo che sembra soffrire di un feroce amore platonico, che lontanamente sembra ricordare il Velvet Goldmine di Todd Haynes. Non gioca a favore neanche la lunghezza della pellicola che risente moltissimo dello stile cinematografico russo.
Ciò che bisogna indubbiamente riconoscere a Leto è che, rispetto a molte pellicole analoghe, basate sulla nostalgia, qui è il contesto culturale a parlare. La feroce differenza tra la cultura degli anni ’80, la sua musica, i suoi moti, e la cultura russa, la società russa degli anni ’80.