A due mesi dall’uscita di Cuphead cerchiamo di ragionare sull’incredibile attrattiva della sfida nei videogiochi: perché amiamo i titoli più impegnativi?
“Preparati a morire”, così recitava la tagline dell’edizione PC (2012) di Dark Souls, titolo decisamente trial and error che, assieme al suo predecessore Demon’s Souls, è riuscito a definire un nuovo sottogenere videoludico: i cosiddetti souls-like. La saga di From Software ha venduto oltre 5 milioni di copie e il suo successo ha raggiunto livelli incredibili, tanto da aver creato schiere di appassionati, pronti, ogni volta, a sconfiggere il boss di turno.
Cuphead, frutto del durissimo lavoro di Studio MDHR , è protagonista di una situazione più o meno simile, dove a una forte e splendida caratterizzazione grafico-artistica, si lega un altissimo livello di difficoltà, arduo anche per i giocatori più esperti. Anche in questo caso i dati di vendita (specialmente se si considera la natura indie del titolo) sono davvero incoraggianti, con oltre un milione di copie vendute nelle prime due settimane di lancio. Di esempi di produzioni non proprio user friendly ma celebri nel medium ce ne sono parecchie anche senza scomodare mostri sacri del passato, come Ghost ‘n Goblins o Ninja Gaiden.
Ciò che in tanti danno per scontato, ma che a molti sfugge, è il motivo per il quale la formula funziona, permettendo a questi titoli di diventare cult: da cosa scaturisce il nostro amore per la sfida?
La quiete dopo la tempesta
Il sistema di intrattenimento si fonda (e si è sempre fondato), globalmente, su certe fondamenta di natura inamovibile, tra le quali figura senza dubbio la catarsi. Plauto, noto commediografo dell’antica Roma, attraverso la banale risata, purificava il popolo romano dalle preoccupazioni della vita quotidiana.
Tornando a tempi recenti invece, si può osservare come anche i cinecomics creino un contesto d’azione sempre in crescita (climax) per poi, con la classifica sconfitta del villain, permettere la liberazione della tensione, sviluppata dallo spettatore durante la visione.
catarsi
sostantivo femminile
1. Nella religione greca, nella filosofia pitagorica e in quella platonica, indicava sia il rito magico della purificazione, inteso a mondare il corpo contaminato, sia la liberazione dell’anima dall’irrazionale. In partic., secondo Aristotele, la purificazione dalle passioni, indotta negli spettatori dalla tragedia. 2. Nella storia dell’estetica, l’azione liberatrice della poesia che purifica dalle passioni; nell’estetica di B. Croce, il momento supremo dell’intuizione poetica. Con valore più ampio, nel linguaggio letter., il termine è anche usato col senso generico di purificazione, liberazione dalle passioni. 3. In psicanalisi, processo di totale o parziale liberazione da gravi e persistenti conflitti o da uno stato di ansia, ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo.
La parola catarsi, come ben visibile sopra, ha vissuto una serie di rivisitazioni del proprio significato, dal primo (1) , legato alla concezione aristotelica di purificazione dello spettatore fino alla più recente (3) interpretazione di Freud. Tutte queste definizioni hanno però in comune l’elemento della purificazione e della liberazione, e, insieme, sono coordinate essenziali per comprendere il paragrafo che stiamo affrontando.
Questa emotional release (come viene definita da molti psicanalisti) permette di “buttare fuori” le emozioni negative accumulate, facendoci sentire immensamente meglio rispetto a prima. Per capirci, quando per esempio siete stressati e, urlando, vi sfogate, affrontate lo stesso processo. Allo stesso modo, quando ci troviamo a ripetere, magari decine di volte, la stessa boss fight, accumuliamo un sentimento di rivalsa mista a rabbia.
La voglia di vincere e di superare la difficoltà ci fa andare avanti, ci porta a studiare i pattern del nemico e le nostre mosse con grandissimo impegno. E quando riusciamo a sconfiggere il boss la soddisfazione, data dalla perdita della frustrazione (catarsi), è davvero incredibile e costituisce il cuore dell’appagamento in un souls-like o in qualsiavoglia altro genere che coinvolga meccaniche di trial and error (i platform pixel perfect, per esempio).
Molti giocatori vengono però consumati dalla difficoltà del titolo e, nella stragrande maggioranza dei casi, lo abbandonano: è questo il motivo per il quale un gioco come Bloodborne non potrà mai essere diffuso come un Assassin’s Creed, in cui l’esperienza è più guidata ed accessibile.
Io sono meglio di te
La distinzione – se esiste – tra casual gamer e hardcore gamer ha da sempre tenuto banco nelle discussioni di settore, in una costante ricerca di definizione del giocatore di serie A e di serie B. Questo discorso, per quanto possa sembrare antiquato rispetto ai tempi che corrono, con la visione del game as a service (che fa di tutti noi, indistintamente, risorsa economica), risulta tuttavia attuale nella riflessione sul concetto, relativo, di sfida e rivalità.
Il giocatore di serie A, nella mente comune e superficiale, sarà quindi quello che, per usare una metafora sonara, avrà raccolto decine di platini, completando al 100% ogni gioco comprato. Il giocatore di serie B, invece, sarà l’utente dei “semplici” trofei oro (fate caso alla nota polemica). Con le stesse e identiche dinamiche un ragazzo che supera un livello o un gioco particolarmente complesso potrà credersi differenziato dal resto della massa, andando a sentirsi parte di una specie di fascia d’èlite.
Il ragionamento è certamente non molto valido per l’utenza più matura, quella dei 20-30 anni, mentre appare decisivo per quella più adolescenziale-infantile, dove le relazioni sociali sono più morbide e più improntate sul “so’ meglio io perché…”. Che si tratti di finire un videogioco o di completare l’album di figurine Panini fa poca differenza: chi di noi, da piccolo, non si è vantato con gli amici per aver compiuto una certa azione?
Io aiuto te, tu aiuti me
Un tempo, quando si affrontavano complesse sequenze di gioco, si poteva rimanere ore, se non giorni, fermi per cercare di proseguire. Era quello che succedeva, per esempio, con gli enigmi ambientali di Maniac Mansion o Day of the Tentacle , nessuno forniva la “chiave di volta” della sfida. Il sistema ludico, di fatto, integrava solo giocatore e gioco, nient’altro.
Oggi la situazione, come ben sappiamo, è cambiata: YouTube, forum, siti specializzati forniscono guide per ogni gioco rilasciato sul globo. E sebbene molti di voi (anche chi scrive) storceranno il naso di fronte a queste tendenze, non tutti i mali vengono per nuocere.
Non si tratta solo di “capire” come affrontare un gioco ma anche, magari indirettamente, di rapportarsi con altri utenti; il banale post su NeoGaf (si,esiste ancora) o su Reddit, la confusa sezione commenti, un trend sui social network, possono tutti contribuire alla formazione di una community, nel senso più ampio del termine.
Gran parte del piacere nel giocare titoli impegnativi deriva, inconsapevolmente, dal condividere ed esporre le proprie esperienze, nel tentativo di trovare “conforto” o una soluzione comune. Centinaia, migliaia di persone spendono il proprio tempo discutendo sul Player Character perfetto, sul modo più efficace per sconfiggere un boss, superare una fase platform o, addirittura, riempendo bacheche di testi di sfogo.
Infatti, nonostante vantino un pubblico molto più limitato rispetto a titoli mainstream (tipo FIFA, Call Of Duty, Battefield ecc…), queste produzioni hanno l’immenso pregio di avere community sempre attive, dove utenti entusiasti si riuniscono di continuo, andando ad analizzare i più piccoli particolari dell’universo esaminato.