Pioveva. Un ghigno deformava la sua faccia sfregiata. Il demone aveva due paia di braccia ed erano tese verso di me, pronte ad afferrarmi e trascinarmi nell’abisso che si apriva alle sue spalle.
La sua bocca vomitava un fiume di fitta oscurità che si stava lentamente, ma inesorabilmente diffondendo intorno a me. Cercavo disperatamente di richiamare la Luce, ma stavo perdendo i sensi. Sfoderai Anima e mi preparai a difendermi.
L’aria entrava e usciva freneticamente dal mio naso, la sentivo per via delle narici dilatate. Incominciai a indietreggiare, le gambe mi tramavano, fino ad arrivare fuori dalla portata del demone. Una risata simile a un latrato risuonò nell’aria. Il demone assaporava la mia paura e se ne beava. Si erse in tutta la sua altezza facendo perno sulla lunga coda di serpente che costituiva la metà inferiore del suo corpo. Le grosse mammelle sobbalzavano sul suo petto scoperto al ritmo delle sue risate. Nel frattempo i soliti uccellacci neri planavano pigramente sopra le nostre teste, il loro gracchiare ne confermava la presenza. Tremavo, tremavo e riuscivo a malapena a reggermi in piedi.
«Questa volta è finita, abbraccia l’Oscurità. Chiudi gli occhi, presto sarà tutto finito» questo l’orrida voce del demone mi consigliava di fare. Lo sentivo riecheggiare nella mia testa, sempre più vicino. Seguì il suo consiglio, chiusi gli occhi.
“Fai in fretta, per favore, non resisto più. Concedimi almeno questo”. Pensavo che quelle parole fossero uscite dalla mia bocca, ma con orrore mi resi conto di avere i muscoli della mascella paralizzati. La spada mi cadde di mano. Non capivo più dove mi trovassi, se fossi ancora vivo oppure morto, desideravo solo che questa lenta agonia finisse. Cercavo di pensare, di ricordare qualcosa che avevo dimenticato, qualcosa di veramente importante. Spalancai gli occhi e mi guardai intorno, per cercare un posto dove nascondermi, ma inutilmente. Fuggire, fuggire in un buco nella terra dove mi potessi nascondere.
Il demone sorrise come se avesse capito i miei pensieri. La sua lunga lingua biforcuta sibilò uscendo dalla bocca mentre lentamente si bagnava le labbra e avanzò strisciando sul ventre, i suoi lunghi capelli ondeggiavano e arrivò a un palmo dal mio naso. Ormai eravamo faccia a faccia, i miei occhi si perdevano nel baratro celato dentro i suoi. Ero solo, dannatamente solo contro la mia paura. Sentivo il cervello lavorare a mille all’ora, ma non riuscivo a fare nessun pensiero logico. Un ricordo, dovevo ricordare qualcosa di importanza vitale. La luce era sparita, restava solo un’oscurità densa. Un paio delle sue braccia mi afferrarono per le spalle, mentre i suoi capelli mi serrarono la gola in una morsa letale. Un fetido odore usciva fuori dalla sua bocca e per poco non persi i sensi. Sudavo freddo.
“Questa è davvero la fine”. Non riuscivo a vedere nessuna via d’uscita da quella situazione. Ogni mia speranza era morta e con essa stavo morendo anche io.
«Arrenditi».
Dovevo resistere, non poteva finire così. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Dovevo ricordare quella determinata cosa, ma continuava a sfuggirmi. “Non può finire così, non può…”. I miei pensieri vennero interrotti. Una voce tuonò nell’aria e improvvisamente una musica rozza, ma rassicurante risuonò. Solo allora ricordai. “Devo fare il morto, devo lasciarmi andare”. Finalmente il mio cervello cominciò a funzionare. Mi vennero in mente il dolce profumo dei capelli di Happiness, le guanciotte morbide del mio fratellino, gli amorevoli occhi di mia madre e le abbondanti risate di mio padre.
La Luce era stata evocata da una misteriosa figura ancora avvolta nella nebbia che pian piano cominciò a diradarsi. Il demone scappò inorridito nell’oscurità da cui era uscito, non prima di avermi lanciato un’occhiata come per dire “non è ancora finita”.
«Quante volte dovrò ancora salvare il culo a te?» disse la voce. «E voi cosa ci fate ancora qui? Andate via, sciò!» ordinò agli uccelli che volteggiavano sopra il luogo.
Avevo ancora il fiato corto per lo scontro ravvicinato con il demone e non riuscivo a mettere bene a fuoco la figura. Poi finalmente i miei occhi riuscirono a mettere a fuoco la faccia del mio salvatore. La sua folta barba e la sua criniera leonina, la quale era stata raccolta in spessi dread e che gli dava un’aria da santone indiano, mi rivelarono subito chi avevo davanti. Come se non bastasse i suoi inconfondibili occhiali rotondi che pendevano sul lato destro del suo viso altrettanto rotondo confermarono che davanti a me stava Malfburn.
«Malfburn!» fu tutto ciò che fui in grado di dire prima di rimanere a corto di fiato. Barcollai leggermente, le mie gambe ancora non riuscivano a sostenere il mio peso.
«Piano, riprendi fiato prima», mentre parlava tirò fuori dalla tasca del suo largo giubbotto una cartina, del tabacco e dell’erba e cominciò a far su. Le sue mani abili risolsero il problema in meno di due minuti, prima di leccare per bene la cartina e accenderne la punta. Aspirò a pieni polmoni e poi buttò fuori il fumo.
«Ne vuoi un po’? Aiuta a rilassare i nervi!» la sua bocca era già leggermente incurvata in un sorriso perché intuiva già la risposta.
«No grazie… sai che non… è quella la mia… strada» dissi riprendendo un po’ più di confidenza in me stesso.
Aspirò un’altra volta a pieni polmoni e ricominciò:
«Allora, spiegami come hai fatto a finire di nuovo tra le braccia di Întuneca? Pensavo fossi riuscito a sconfiggerlo».
«Pensavo anche io la stessa cosa, ma quel balordo è spuntato fuori e mi ha colto alla sprovvista!» finalmente ero riuscito a calmarmi un po’ tanto da riuscire a mettere insieme più di qualche parola sconnessa.
Mi guardò con un’espressione piena di compassione.
«Sei davvero convinto che ti avviserà prima che ti attacchi? Te l’ho già detto quando ci siamo incontrati la prima volta, devi essere sempre pronto, non devi mai abbassare la guardia. Ancora non ho capito perché hai scelto la strada più difficile, però ormai non puoi più tornare sui tuoi passi». Il suo sguardo cadde su Anima. La raccolse e la pulì dalla polvere che si era accumulata quando mi cadde di mano. Ne saggiò il peso e il filo. Soddisfatto di ciò che vedeva, me la porse e io la riposi al mio fianco. La pioggia finalmente era cessata, ma grigie nuvole incombevano ancora sulle nostre teste.
«Ora dimmi, guerriero, cosa hai intenzione di fare? Ti farai prendere dal panico ogni volta che incontrerai un demone come questo? Mi sembrava che avessi coraggio da vendere quando sei entrato nella Città!» dicendo così lanciò via quel poco che rimaneva di ciò che aveva fumato prima. Io non potei fare a meno di notare l’ironia delle sue parole.
«Sei tu che mi hai trascinato in tutto questo, Malfburn! Forse se non ci fossimo mai incontrati niente di tutto ciò sarebbe mai successo! Tu e il tuo stupido gioco di ruolo!» gli urlai rabbiosamente contro.
«Mamma mia, hai proprio una gran testa di cazzo! Ma non è solo questo, per di più è anche dura e vuota! Colpa mia? Ma quale colpa e colpa, tutti ci giocano prima o poi. Non sei tu l’unico e non sarai certo l’ultimo. Seriamente pensi questo? Meno male allora che ho scelto di fare il mago. Per lo meno, io, un po’ di cervello ce l’ho!» la sua risposta non si fece attendere.
In un altro momento di sicuro me la sarei presa a morte con lui per queste parole. Ero troppo spossato per controbattere e abbassai gli occhi. Ciò che più mi ferì fu il fatto che avesse ragione. Aveva dannatamente ragione.
«Io, io non so cosa dirti. Mi spiace, non volevo dare la colpa a te. Solo che è più difficile di quanto mi aspettassi, molto più difficile. Ed è complicato, troppo complicato.»
«Ora, se hai finito di dire cazzate lapalissiane, vorrei che ti dessi una svegliata. Ti ho avvertito alle porte della città, una volta entrato non si torna indietro. Certo non è detto che tu riesca ad attraversarla, potresti impiegarci una vita, potresti non uscirne mai. Potresti diventare un’anima dannata e portare le catene alle caviglie e alle mani per sempre oppure potresti vincere domani stesso. Tutto questo nessuno lo può sapere con certezza. Una cosa è certa: qualunque sia il tuo destino, non tornerai più a essere quello di prima. Dimenticati pure i giorni spensierati, perché questo è un ricordo che ti accompagnerà per tutta la vita. Ora se non ti spiace, suggerirei di andare a stare da qualche parte. Non vorrei che sbucasse fuori un altro demone e tu te la facessi sotto. Oppure che ci fosse un raid degli Angeli: sai che il mio vizietto non è proprio, detto tra noi, legale in questa parte della Città.»
Così ci avviamo tra le strade della Città. Una leggera pioggia cominciò ad accompagnare i nostri passi. Vagabondammo per un’oretta scarsa tra le viuzze e i viali. Si vedeva che Malfburn era un giocatore più esperto di me e che aveva passato più tempo nella città: conosceva a memoria ogni traversa per arrivare il più in fretta possibile al suo covo.
Mentre ci inoltravamo in quel labirinto di strade mi guardai intorno. Vidi un sacco di persone, molte delle quali portavano ai piedi e polsi quelle catene di cui mi aveva parlato il mio amico in precedenza. Camminavano con lo sguardo vacuo, fisso a terra. Non si accorgevano di essere circondati, si trascinavano semplicemente avanti come se portassero sulle proprie spalle un enorme macigno. Senza accorgermene andai a sbattere contro uno di loro. Fu un incontro che non avrei dimenticato per il resto della mia vita. Aveva i capelli lunghi e unti che gli penzolavano pigramente sulle spalle. Una barba trasandata ricopriva il volto sporco. Gli occhi erano due fessure grigie, vuote. Una camicia logora di colore azzurro e dei pantaloni laceri blu, questi erano i suoi indumenti. Camminava a testa bassa e si trascinava lentamente, come se fosse una nave contro vento nell’oceano.
«Scusa» dissi io dopo averlo urtato. L’unica risposta che ricevetti fu quella di Malfburn.
«Lascia perdere, faresti prima a dialogare con questo muro» disse indicando la casa che avevamo di fronte. «Quella era un’anima dannata. Giocatori che hanno perso la speranza di vincere, ma soprattutto la voglia di giocare. Le vedi quelle catene? Quello è il regalo che ricevi dopo essere stato trascinato nell’abisso da un demone. Nessuno sa quello che succede laggiù, ma dopo non si è più in grado di evocare la Luce. Persi per sempre nell’Oscurità. Aspettano solo che gli Angeli facciano iniziare un nuovo server e cancellino definitivamente i loro profili».
«Non c’è niente che possiamo fare per loro?» insistetti io.
«No. Pensa innanzitutto a giocare la tua partita. E non ti aspettare che qualcuno faccia qualcosa per te. Questo è un gioco individuale».
«Eppure tu mi hai aiutato!» gli feci notare io.
«Sì. L’ho fatto perché sei nuovo da queste parti e perché ci conosciamo da un po’ di tempo. Per di più è stato un caso che ci siamo rivisti dopo il nostro primo incontro alla porta della città. Ti dirò di più: esistono delle gilde che i giocatori possono decidere di formare per aiutarsi reciprocamente, ma per vincere, per uscire dalla Città devi trovare la strada da solo».
Non riuscivo a togliermi dalla testa l’anima dannata di prima. Provavo una gran pena per loro. Mi chiedevo come fosse possibile che non si accorgessero di essere tutti nella stessa situazione. Tutti costretti a vivere nella medesima condizione. Immaginavo solo quali orrori avessero vissuto nell’abisso per perdere ogni scintilla di vita dagli occhi. Perché non spezzavano quelle catene, che cosa glielo impediva? Il mio flusso di pensieri fu repentinamente interrotto.
«Siamo arrivati! Entra in fretta» disse il mio compagno guardandosi con fare circospetto intorno.
Probabilmente se non me l’avesse indicata Malfburn non mi sarei mai accorto di quella specie di rientranza nel muro. Presumevo fosse la porta. Eravamo arrivati. Un posto sicuro in cui curare le ferite e riprendere le forze per attraversare la Città. Finalmente qualcosa che assomigliasse vagamente a un po’ di pace.
Immagine di testa © Matthew Stewart