Non è un caso se la sigla di apertura del nuovo Star Trek: Discovery ha volutamente un sapore rinascimentale. È da questa serie infatti che Star Trek può rinascere e (ri)entrare con decisione nell’empireo dei migliori prodotti di fantascienza di sempre nel suo formato di nascita, quello televisivo-seriale.
Se infatti al cinema Star Trek continua a non fare faville, ma piuttosto a navigare in una cauta zona neutrale che sta fra la tamarrata e il rispetto del modello “composto” della Serie Classica (non che ci dispiaccia, comunque!), è nel formato televisivo che si gioca la partita più importante.
In un panorama sovraffollato e competitivo, Star Trek ha il dovere di ritornare a dire la sua dopo tante, troppe serie “for fans only” che hanno avuto, sì, acuti non indifferenti, ma che non sono riuscite mai a sfondare davvero nel cuore di chi non era già fan.
Un peccato mortale per un prodotto nato e cresciuto con la volontà di raccontare, stupire, persino educare senza mai tirare pipponi, attraverso le vicissitudini di equipaggi compositi, problematici, logici e romantici.
Con tante differenze al loro interno, e forti proprio perché diversi e capaci di cooperare, i team che hanno vissuto ed esplorato (e di tanto in tanto combattuto) a bordo delle varie Enterprise e Voyager ci hanno mostrato spesso il lato migliore del genere umano. E di quello alieno e androide.
Star Trek: Discovery – che si setta temporalmente tra Enterprise e la Serie Classica – ha il coraggio di iniziare là dove nessuna serie aveva mai fatto prima, con una bella sequenza nello spazio con tensione palpabile e colpi di scena a raffica.
La mano di una produzione davvero (e finalmente) al passo con i tempi si sente, e il ritmo sostenuto non fa perdere smalto ad una costruzione narrativa che tiene contro di fare un po’ di infodump per chi è al primo Star Trek (Prima direttiva eccetera) e a introdurre nuovi personaggi che dovranno crescere con l’andare della serie.
I primi due episodi sono praticamente un lungo pilot tagliato in due, che si reggono su un impianto visivo spettacolare, una tensione che si taglia con il coltello e delle ottime sequenze d’azione.
Oltre alla presenza scenica della mitica Michelle Yeoh, nei panni dell’inflessibile capitano della USS Shenzhou.
80 minuti di spettacolo che mi sono bevuto lungo tutta la giornata, prima sul pc, poi sul tablet, poi in tv, per finire di nuovo sul tablet – e l’esperienza è stata oltremodo soddisfacente.
La resa visiva di questi primi episodi è fantastica.
Sembra davvero di stare davanti ad un film cinematografico e la scelta di colori caldi e brillanti – quei brutti darkettoni dei Klingon a parte – aiuta a scrollarsi di dosso quella sensazione “asettica” che avrebbe potuto respingere i nuovi spettatori.
Non è una rivoluzione per Star Trek, ma comunque è bello trovare una protagonista femminile e un personaggio che, una volta tanto, non è il comandante di una nave.
Anche se il cliché del vulcaniano (o quasi) come primo ufficiale è rispettato, la nostra Michael Burnham è già memorabile.
Interpretata dalla deliziosa e decisa Sonequa Martin-Green è un’umana allevata e educata dai vulcaniani – e che vulcaniani!
L’ha cresciuta Sarek, il padre di Spock – ed ha rimosso la propria emotività per fare spazio alla logica, ma questo non significa che fare la scelta logica, a volte, non sia andare contro gli ordini… e Michael lo scoprirà presto.
Con un trauma nel passato e un mentore a farle da consigliere, la nostra protagonista è il negativo di Spock e non ha niente da invidiare i grandi personaggi delle migliori saghe.
Per di più, la abbandoniamo al secondo episodio in una situazione che pare senza via d’uscita.
Un bel cliffhanger per un inizio di serie che definire promettente è poco.
Degno di nota uno degli attori preferiti di Guillermo Del Toro, il buon Doug Jones, che anche qui se ne sta sotto diversi strati di trucco per dare vita al misurato e quasi-british Saru, ufficiale scientifico e primo della razza Kelpien ad entrare nella Flotta Stellare. Una razza che è stata schivizzata e sacrificata fin da tempi remoti e che ha un comprensibile senso di repulsione verso il pericolo.
Non per questo Saru si dimostrerà restio alla lotta: solo che preferisce i piani tattici, come scopriremo.
Dialoghi ben scritti e atmosfera coinvolgente sono dunque il piatto forte di Star Trek Discovery, che ha deciso di puntare tutto sul nemico primigenio, lo spauracchio per eccellenza della Federazione.
Signore e signori: i Klingon
Rigenerati per l’occasione con un aspetto decisamente più brutale e ferino, che li riporta in modo simbolico ai tempi della Serie Classica, i guerrieri tutto onore e faide interne stanno per coalizzarsi per fare il culo a strisce alle razze federate.
“Veniamo in pace” alle loro orecchie suona come una bestemmia, anzi peggio (o meglio, visto che sono degli invasati): una dichiarazione di guerra.
Le bugie degli umani che tante sciagure portarono alla loro razza un secolo prima sono il motore che muove T’Kuvma, un reietto dal carisma così potente dal riuscire nell’impresa di mettere d’accordo le 24 tribù in guerra fra loro spacciandosi per Kahless l’Indimenticabile, divinità che attendeva solo di reincarnarsi (e che abbiamo visto nella Serie Classica e –clonato – in TNG).
I Klingon stavano in agguato, con più di una sorpresa per la Flotta Stellare, e non aspettavano altro che attirare in trappola qualche sprovveduta nave nei pressi dei confini della Federazione: l’equipaggio della USS Shenzhou avrà ben più di una gatta da pelare prima dell’arrivo dei rinforzi.
Colpi di scena, picchi emotivi, siluri, prese vulcaniane e citazioni della Kobayashi-Maru non mancano in questa premiere che ha il respiro di grande avventura e che, se proprio vogliamo trovargli un difetto, ha un po’ troppo carattere autoconclusivo, tanto che praticamente dal terzo episodio potremmo tranquillamente assistere a una serie totalmente differente!
Più dalle parti del reboot di JJ Abrams che della tradizione televisiva, Discovery si attesta già come uno dei prodotti più promettenti della fantascienza contemporanea e un ottimo figlio di quella storia partorita dalla mente del geniale Gene Roddenberry.