Nella filmografia di Martin Scorsese, soprattutto nella primissima parte, ci sono diversi riferimenti al cinema di John Ford e in particolar modo a Sentieri Selvaggi. È quel film che i ragazzacci di Mean Streets vedono al cinema, è di quel film che J.R. parla per attaccare bottone con la ragazza in Chi sta bussando alla mia porta? ed è a quel film che è ispirata la sceneggiatura di Taxi Driver. Era destino che prima o poi il cineasta newyorkese si approcciasse al western, anche se non era scontato lo facesse a 80 anni e in una zona lontana dalle coordinate fordiane. Più prevedibile invece era che il risultato fosse ottimo.
Sgomberiamo il campo da eventuali interpretazioni iniziando la recensione di The Killers of the Flower moon, nelle sale italiane dal 19 ottobre 2023 con 01 Distribution, dicendo che è un film bellissimo.
Nella filmografia di Martin Scorsese, soprattutto nella primissima parte, ci sono diversi riferimenti al cinema di John Ford e in particolar modo a Sentieri Selvaggi.
Dopo esserci tolti questo pensiero diciamo anche che è una pellicola che dimostra soprattutto l’efficacia sempiterna del pensiero filmico di Scorsese per indagare la Storia americana e che, pur raccogliendo dentro di sé una grande parte del suo bagaglio tematico, testimoniato dalla presenza per la prima volta in un suo film di entrambi i suoi attori feticcio, Leonardo DiCaprio (anche produttore, insieme a AppleTv+) e Robert De Niro, non è un titolo che punta ad essere un film summa o testamento, ma piuttosto un film testimonianza, perentorio verso il presente.
Non è un caso che nel film presentato Fuori concorso a Cannes76 accanto ai volti storici spicchi quello nuovo di Lily Gladstone. La sua Mollie non è solo il fulcro della pellicola, ma anche il personaggio più forte, bello, curato e quello che beneficia dell’interpretazione migliore. In questo senso un segnale importante dopo il funereo The Irishman, perché laddove quello suonava come un commiato, Killers of the Flower moon suona come un monito.
Le Viole del pensiero
Sebbene sia tratto dal saggio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI (edito da noi come Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera) del giornalista David Grann, a sua volta basato su una storia vera, la pellicola adattata da Eric Roth e dal regista stesso sposta subito il focus dalle indagini del Bureau al tipico racconto scorsesiano di un pezzo della storia umana.
L’intenzione è talmente forte da iniziare il film raccontando un evento decennale in poche, meravigliose (quando hai Rodrigo Prieto è facile), inquadrature per poi portare lo spettatore direttamente nell’Oklahoma degli anni ’20, la terra degli Osage, divenuti improvvisamente il popolo più ricco d’America grazie alla scoperta del petrolio. Oro nero, che li sottrae dalla purezza delle loro tradizioni per metterli in contatto con il demonio bianco, colui che è stato fautore dello sterminio del secolo precedente.
Una banda di arrivisti, fuorilegge e sfruttatori, che vanno da allevatori mefistofelici come William Hale (De Niro) alle teste calde e anche un po’ bacate di reduci della Grande Guerra come Ernest Burkhart (DiCaprio). Nel nostro caso parliamo di zio e nipote, anche se il secondo (per sua decisione) è solito riferirsi al primo appellandolo come “Re”. Quindi, insomma, avete capito la tipologia di rapporto.
Oro nero, che li toglie dalla purezza delle loro tradizioni e li porta a contatto con il demonio bianco, colui che è stato fautore dello sterminio del secolo precedente.
L’idea di questo anziano capofamiglia è quella di appropriarsi delle concessioni degli indiani Osage, di cui è amico nella misura in cui li conosce e li protegge e ai quali si propone in ogni occasione per curare i loro affari. Per questo motivo incoraggia il ragazzo, “coyote rozzo, ma di bell’aspetto”, a corteggiare Mollie (Gladstone), ereditiera, insieme alle sorelle, di una più che cospicua somma di denaro.
Se paragonato a quelli in voga in quel periodo si trattava di un metodo tutto sommato pacifico di appropriazione dei beni del popolo indiano, innamorato delle Viole del pensiero, fiori che vengono uccisi dalla luna di maggio.
L’America è nata nelle strade
L’idea di riuscire a mettere a fuoco, di catturare, l’anima del suo Paese è stata sempre un’ossessione del cinema di Scorsese. Portare sullo schermo la sua trasformazione attraverso i traumi degli uomini e le donne, i loro dolori, le loro vittorie e, soprattutto, il loro rapporto con Dio, che per il cineasta newyorkese ha sempre avuto due volti, quello violento del denaro e quello irraggiungibile della spiritualità.
Alla fine il regista è riuscito a trovare la sua chiave di lettura, il suo modo di raccontare e il suo strumento di analisi, che è quello che si trova nel suo cinema sin dagli albori, attraversando generi ed epoche, e che ritroviamo anche in Killers of the Flower moon, sintetizzabile nella frase: “l’America è nata nelle strade”. Lo diceva anche qualcuno in uno dei suoi film, qualche tempo fa. Mai come questa volta però la frase esprime una sentenza sul decorso della sua indagine.
L’idea di riuscire a mettere a fuoco, di catturare, l’anima del suo Paese è stata sempre un’ossessione del cinema di Scorsese.
Il fascino del petrolio che richiama un’avidità tale da piegare l’umanità, come raccontò meravigliosamente Paul Thomas Anderson in uno dei film più belli del cinema contemporaneo, acquisisce qui un valore visivamente corrosivo, come una sorta di secondo battesimo, per poi aleggiare per l’intera pellicola tornando a manifestarsi solo in termini evocativi. Uno spettro che ha portato l’uomo bianco a terminare il lavoro.
Qui irrompe, quasi in maniera naturale, la struttura tipica di Scorsese, il gangster movie che distrugge il racconto di frontiera in un western già pensato da subito al contrario (il treno arriva, non parte), supportato da dei passaggi che sottolineano la veridicità del racconto, quasi volutamente reiterati, glaciali e perentori, come se stessimo assistendo ad una ricostruzione senza speranza, perché già conclusasi nella morte e nella sconfitta. La novità sta nella totale assenza di comprensione per il maschio scorsesiano, nessun tentativo di avvicinare a lui lo spettatore e nessuna ipotesi di perdono, neanche per il personaggio di Ernst, che è quello che più potrebbe prestarsi a quel tipo di soluzione.
Una donna simbolo della Storia
Mollie diviene il simbolo della Storia dell’America, o almeno dell’epoca che racconta Killers of the Flower moon. Lei è il simbolo della dignità silente di un popolo decaduto anche per colpe sue, soprattutto della propria ingenuità. Un popolo che si è lasciato avvelenare dall’uomo bianco a causa della propria miopia, anche di fronte all’innegabile. Lei è la luce, a volte raggiante e a volte flebile, degli oltre 200 minuti della pellicola e il suo corpo è la metafora della sofferenza di una terra e di una Nazione. Ernst è il suo perfetto contraltare, rappresentante di un nordamericano bianco rozzo, debole, schiavo dei suoi padri e piegato dai rimorsi.
Gladstone, guidata da Scorsese, giganteggia accanto ad un De Niro in parte dal primo secondo e gestito clamorosamente bene da un regista che lo conosce come nessun altro e un DiCaprio in un ruolo inedito per lui, generoso, ma sempre in pericolo overacting. Non è infatti peregrino pensare che sia lui quello lasciato più autonomo di operare dal cineasta.
Lei è la luce, a volte raggiante e a volte flebile, degli oltre 200 minuti della pellicola e il suo corpo è la metafora della sofferenza di una terra e di una Nazione.
La mano, l’occhio e la mente di Scorsese aleggiano per tutto il film, come un direttore d’orchestra dall’orecchio assoluto. La pellicola urla la sua presenza in ogni inquadratura, in ogni sequenza, in ogni scelta musicale, financo nel montaggio volutamente più fermo, cadenzato e scandito rispetto ad un passato che lo ha visto girare anche film come The Departed in cui i primi 40 minuti sembrano una scena sola. In questo è stato aiutato ancora una volta da quel fenomeno di Thelma Schoonmaker.
Killers of the Flower moon è un film bellissimo. Non il più bello del regista di New York, ma scritto e girato magnificamente e di sicuro uno dei più significativi a livello semantico di questa sua ultima stagione cinematografica perché in grado di segnare un’evoluzione ulteriore nella sua carriera fatta di affreschi storici, soprattutto per quanto riguarda la ferocia della sua critica. Oltre ad essere un altro film contro il linguaggio contemporaneo, che Scorsese rifiuta ormai da anni.
Killers of the Flower moon è disponibile nelle sale italiane dal 19 ottobre 2023 con 01 Distribution.
Killers of the Flower moon è il nuovo film di Martin Scorsese prodotto da AppleTv+, presentato Fuori Concorso a Cannes76 e con protagonisti per la prima volta sotto la sua guida i suoi due attori feticcio, Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, anche se a giganteggiare, tra loro due, è Lily Gladstone. Tratto dal saggio storico Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI di David Grann, la pellicola è un altro affresco scorsesiano per indagare la Storia del suo Paese. Una produzione enorme per un western al contrario della durata di 206 minuti che il cineasta gestisce a suo piacimento, mettendoci dentro le sue ossessioni e affermando la sempiterna efficacia del suo modo di fare cinema per indagare l'anima nera dell'America, rappresentata da uomini divisi tra la spiritualità e il Dio denaro. Un bivio che stavolta riguarda il popolo Osage, da cui pesca il corpo su cui basa la sua discussione concettuale, rappresentato in una dignitosa decadenza causata dalla sua Natura e da quella dell'uomo bianco, su cui cade la sentenza definitiva. Una critica feroce per un film bellissimo anche contro il contemporaneo.
- La tipica struttura filmica di Scorsese ha un'efficacia tale da poter indagare ogni epoca della Storia americana.
- L'ideazione di un western al contrario rispetto alla tradizione.
- La rappresentazione delle ossessioni scorsesiane: Dio e denaro.
- La prova di Lily Gladstone, il fascino e la forza simbolica del suo personaggio.
- La gestione di Scorsese di ogni aspetto della pellicola, degno del miglior direttore d'orchestra.
- La critica storica, raramente così feroce.
- La struttura filmica è la tipica di Scorsese e non fa nulla per nasconderlo.
- La durata e la gestione dei tempi potrebbero mettere alla prova.