Il castello nel cielo (o Laputa – Castello nel cielo) rappresenta un titolo molto particolare da inserire nell’intreccio tra la storia autoriale di Hayao Miyazaki e quella produttiva e poetica dello Studio Ghibli.
Si tratta di fatto del vero primo lungometraggio originale pensato per lo studio, dato che i precedenti erano Lupin III – Il castello di Cagliostro, pensato sul personaggio di Monkey Punch, e Nausicaä della Valle del vento, basato sui primi sedici capitoli del manga omonimo di Miyazaki, tra l’altro venuto alla luce non sotto il vessillo della casa di produzione rappresentata dal Totoro. Allo stesso tempo però è anche una continuazione spirituale di una pellicola (la seconda citata sopra), che aveva in sé i crismi primordiali per essere annessa alla produzione del leggendario studio d’animazione.
Tutto ciò rende la pellicola datata 1986 una sorta di lavoro capostipite di un nuovo corso immaginativo, ma anche l’opportunità per un giovane cineasta di mettere insieme già diversi elementi stilistici e narrativi già accarezzati e poterli adoperare per creare un manifesto di riferimento con cui poter dialogare nel futuro prossimo e remoto.
Il castello nel cielo rappresenta un titolo molto particolare da inserire nella storia autoriale di Hayao Miyazaki e quella produttiva e poetica dello Studio Ghibli.
Questa è l’immagine migliore per descrivere una pellicola che era giù summa del giovane Maestro giapponese, ma anche punto di riferimento con il quale lui stesso nel corso della sua carriera si è talvolta riavvicinato o dal quale ha deciso di distaccarsi e da cui sono derivati tantissimi altri lavori fatti da autori importanti. Tra tutti il riferimento più facile è quello di Hideaki Anno e la storia della sua Nadia.
Basta vedere l’introduzione per capirlo. Dove vederla? Per esempio al cinema, visto che, dal 27 luglio al 2 agosto, in occasione della seconda edizione della rassegna “Un mondo di sogni animati” (qui per scoprire la programmazione completa), il film torna nelle sale italiane grazie a Lucky Red.
Pazu e Sheeta eroi romantici
“Quali sono le implicazioni del nostro rapporto con il passato?”, “quanto queste possono influenzare le speranze che riponiamo nel nostro futuro?” e, soprattutto, “quanto il nostro presente può essere influenzato da questo continuo sentirsi tirati avanti e indietro?”.
Il castello nel cielo di fatto è un film che cerca di rispondere a queste domande esistenziali, provando a non prendere una posizione netta, ma lasciando volutamente spazio allo spettatore per inserirsi nel discorso e farsi una sua idea. Questi quesiti hanno sempre “turbato” la poetica di Miyazaki, ma solo qui per la prima volta si fanno più complessi e opprimenti di quanto non lo fossero, per esempio, in Nausicaä della Valle del vento, che aveva gli strumenti “solo” per cavalcare un sentimento per farlo diventare immaginario.
Qui l’epica per il Maestro diventa un contenitore e i suoi due eroi romantici, Pazu e Sheeta, i due mezzi attraverso i quali poter viaggiare all’interno di una storia che ha il principale compito di porre delle basi su cui poter riflettere per il futuro. Il film sembra essere fatto da una persona che avesse il bisogno esistenziale di creare qualcosa che potesse essere un raccordo e punto di partenza, come un tornare a se stessi per cominciare un nuovo tipo di sperimentazione, sia formale che di contenuto.
Unire due piani esistenziali, due tempi e due altitudini.
Il film sembra essere fatto da una persona che avesse il bisogno esistenziale di creare qualcosa che potesse essere un raccordo e punto di partenza, come un tornare a se stessi per cominciare un nuovo tipo di sperimentazione, sia formale che di contenuto.
Dopo un inizio di puro action e un intro che sembra quello di uno 007 lirico e poetico come non mai, Sheeta precipita dal cielo e cade tra le braccia di Pazu, sancendo da subito l’incontro di queste “duplici dualità”, che da quel momento in poi non si separeranno mai più, ma anzi, lotteranno contro tutto e tutti per rimanere uniti sino alla fine e anche oltre la fine, andando incontro a quel simbolo di morte e rinascita che idilliacamente sancisce il momento di catarsi massima.
Un nuovo mondo
Il castello nel cielo è per Miyazaki l’inizio del ritorno a se stesso, non a caso il film successivo sarà Il mio vicino Totoro, che è il suo primo film sull’infanzia, e non deve dunque sorprendere se è un lavoro non perfettamente calibrato. Anche quando si parte bisogna trovare il passo e il ritmo giusto prima di cominciare ad andare spediti.
L’intelligenza del cineasta è quella non solo quindi di sperimentare con il passato, sia a livello di animazione vera e propria (a partire dell’inserimento di parti in 2D fino alla creazione di sequenze immaginative meravigliose, come quelle legate alla scoperta dell’isola fluttuante) che tematico (ambientalismo, la guerra, rapporto con il padre, l’eco delle lotte sindacaliste nell’attività dei lavoratori in miniera, i pirati outsider che diventato una comunità positiva anarchica con a capo una donna anziana) per non parlare dell’uso che fa della colonna sonora.
Un’impiantistica totale in cui innesta concetti precedentemente trattati, ma anche dei design precedentemente trattati (in primis quelli rifacenti a Conan il ragazzo del futuro).
Anche quando si parte bisogna trovare il passo e il ritmo giusto prima di cominciare ad andare spediti.
Ovviamente ci sono anche delle trovate totalmente originali, come l’aspetto dei robot (rimasto impresso nell’immaginario giapponese da quel momento in avanti) e l’esaltazione, quasi sacra, di un triumvirato profano, dalla cui intersezione di fatto nasce lo spirito (la pietra, scusate, minuscolissimo spoiler) che è il cuore dell’isola del cielo.
Natura, uomo e macchina che crea la pietra nel cui colore, secondo Miyazaki ovviamente, è racchiusa la simbologia cromatica di tutti quanti questi tre elementi. La natura che dona all’uomo la possibilità del volo attraverso l’applicazione artigianale della propria intelligenza. Un potere che non è né positivo né negativo, ma che l’uomo deve continuamente dimostrare di meritare, condividendolo con tutto il resto della sua specie. Pena l’abbandono.
Quello che c’è di più chiaro ne Il castello nel cielo non è il riferimento a I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, per quanto sia la prima cosa che si evince dal titolo originale (“Laputa” è un rimando diretto all’isola volante del romanzo), ma l’intenzione di raccontare una genesi, metafora di quella dello studio d’animazione, che, come sottolinea Sheeta, ha bisogno delle sue radici per poter poi spiccare il volo. Un’espressione di continuità tra innovazione e tradizione, che devono andare sempre a braccetto per non perdere se stessi e rimanere umani all’interno di una comunità. Rapporto con il passato e speranze verso il futuro. Summa e nuovo inizio.