Ritrovati dopo 37 anni dalla tragedia alcuni frammenti dello Space Shuttle Challenger che esplose nel 1986 pochi secondi dopo il lancio provocando la morte delle 7 persone a bordo, tra cui una insegnante.
La scoperta di una sezione del rivestimento termico dello Shuttle al largo della Florida è stata fatta casualmente da alcuni documentaristi impegnati nelle riprese in cerca dei resti di un vecchio aereo disperso nell’area nel 1945. A dare conferma che il frammento lungo circa 8 metri fosse proprio del Challenger è stata la Nasa attraverso un comunicato stampa in cui aggiunge che
Questa scoperta ci offre l’opportunità di fermarci ancora una volta, di ricordare i sette pionieri che abbiamo perso e di riflettere su come questa tragedia ci ha cambiato.
La navetta venne distrutta in seguito all’esplosione del razzo a 73 secondi dal decollo, indagini successive ne identificarono la causa in una guarnizione malfunzionante in uno dei booster laterali, portando alla morte dei 6 astronauti Nasa a bordo e Christa McAuliffe, un’insegnante che sarebbe dovuta andare nello spazio nell’ambito di un programma di divulgazione con le scuole.
Le ricerche portarono alla scoperta di molti frammenti del mezzo, ma una parte non fu mai recuperata.
Ora, nella realizzazione di un documentario per History Channel dedicato ai misteri del cosiddetto triangolo delle Bermuda, un gruppo di documentaristi in cerca dei resti di un piccolo aereo precipitato in mare al largo della Florida nel 1945 si sono imbattuti in un grosso frammento dello Shuttle. Si tratta di una parte del ventre del Challenger in cui sono ben evidenti le piastrelle nere che avevano la funzione di scudo termico durante il rientro nell’atmosfera della navetta. La Nasa ha aggiunto che valuterà quali azioni intraprendere riguardo ai nuovi resti e che si impegnerà a onorare adeguatamente la memoria degli astronauti del Challenger e le loro famiglie.
La storia del Challenger è una di quelle storie che purtroppo segnano la scienza e la ricerca spaziale in modo tragico. Come sempre la scienza ci ha abituato a degli inciampi, ma quello del Challenger fu ancor più tragico a causa della diretta Tv al quale tutti assistettero. Il 28 gennaio del 1986, da Cape Canaveral, in Florida, si sollevò lo Space Shuttle Challenger, non era il suo debutto in quanto si trattava del suo decimo volo (il primo era avvenuto nell’aprile 1983). Il 1986 era anche l’anno della cometa di Halley, e in effetti l’obiettivo dell’equipaggio di sette astronauti e astronaute della missione Sts-51-l comandata da Francis “Dick” Scobee e pilotata da Michael J. Smith, era quello di studiare la cometa una volta in orbita.
Il Challenger aveva passato 62 giorni nello spazio, 1000 orbite attorno alla Terra, dopo essere subentrato al precedente Space Shuttle Columbia.
Ma in quel decimo volo qualcosa andò storto. Un guasto tecnico, una guarnizione malfunzionante nel segmento inferiore di uno dei razzi a propellente solido, portò all’esplosione del veicolo a 73 secondi dal lancio. Tutti e sette i membri dell’equipaggio perirono nell’incidente. I frammenti del razzo e dello shuttle furono sparsi qua e là, e ogni tanto rinvenuti ed esposti a ricordo di quella tragedia, come la fusoliera che mostra la bandiera americana esposta al Kennedy Space Center.
Quali furono le cause dell’esplosione?
Chiaramente fu istituita subito una commissione presidenziale d’inchiesta, passata alla storia con il nome di commissione Rogers, cui contribuirono personaggi del calibro di Neil Armstrong, Richard Feynman e Chuck Yeager. Gli strumenti a loro disposizione furono sostanzialmente due: la telemetria e i filmati del volo. I due elementi furono studiati in ogni parte in quanto gli scienziati e i periti erano certi che la causa del disastro si trovava lì dentro. Il primo indizio apparve in un video del decollo, ripreso direttamente dalla piattaforma di lancio. Un fotogramma immortalò uno sbuffo di fumo provenire dal booster di propellente solido di destra (in gergo SRB, Solid Rocket Booster) e diretto verso il serbatoio esterno, pieno di idrogeno ed ossigeno liquidi.
Il colore particolarmente scuro del fumo ne suggerì l’origine: una guarnizione circolare detta O-ring, presente nella sezione inferiore dell’SRB, stava bruciando a contatto con i gas a 2700°C generatisi dalla combustione del propellente solido. Gli ossidi di alluminio prodotti della combustione, a contatto con l’ambiente esterno, solidificarono in meno di tre secondi, sigillando la perdita.
La parte di ossidi di alluminio resistette per un primo momento, quando poi si ruppe per effetto delle vibrazioni indotte sull’SRB dalle fortissime raffiche di vento. Si originò una fiammata, testimoniata nella telemetria da un calo di pressione proprio nell’SRB di destra. I gas in quel momento non stavano più uscendo solo dall’ugello, verso il basso, ma anche lateralmente, verso il serbatoio esterno.
Una delle grandi cause di questa reazione a catena fu proprio il grande vento difatti se il Challenger non avesse incontrato raffiche così forti, la sigillatura temporanea avrebbe potuto resistere fino al distacco dei booster, garantendo al Challenger un corretto e sicuro inserimento in orbita. La fiammata durò per sei secondi, un tempo sufficiente a bucare il serbatoio esterno in corrispondenza dell’idrogeno liquido.
E’ proprio da quel momento che lo Space Shuttle si stava disgregando pezzo dopo pezzo con una reazione a catena.
La rottura catastrofica si ebbe dopo 72 secondi, quando cedette l’ancoraggio tra il booster di destra ed il serbatoio esterno. Il primo impattò sul secondo, dando immediatamente fuoco a tutto l’idrogeno liquido ancora presente all’interno. Poco più di un secondo dopo toccò all’ossigeno liquido. La navicella venne inglobata nell’esplosione, ma non esplose. La perdita d’assetto la espose ad intensissime forze aerodinamiche che, quasi istantaneamente, la fecero a pezzi.
Il vento e anche il freddo furono le cause di questo tremendo disastro. Sì perchè in quei giorni ci furono delle temperature particolarmente rigide e le proprietà meccaniche delle guarnizioni in uso sugli SRB erano garantite fino ad una temperatura di 10°C.
La mattina del 28 Gennaio la colonnina di mercurio segnava 2°C.
Data l’enorme quantità di ghiaccio presente sul pad nelle prime ore del giorno, è ragionevole assumere che durante la notte fosse scesa ben al di sotto dello zero, inoltre il veicolo rimase fuori oltre il tempo massimo in quanto la data di lancio fu spostata dal 22 gennaio fino al 28 gennaio, quindi ulteriore stress per quei materiali che da elastici e flessibili diventano rigidi e fragili a causa dello shock termico.
L’evento chiaramente ebbe un enorme impatto sull’opinione pubblica.
Si stima che circa il 17% degli americani stesse assistendo al lancio in diretta televisiva. Dopo venticinque anni di voli spaziali umani, la NASA perse per la prima volta un astronauta in volo, pagando un prezzo altissimo: sette vite umane. L’unica tragedia spaziale a scuotere gli USA fino ad allora fu l’Apollo 1, avvenuta esattamente diciannove anni prima, ma chiaramente non vissuta in questo modo. La commissione Rogers tra l’altro fece emergere come la NASA, all’epoca, fosse non così chiara nei proprio procedimenti riscontrando una poca comunicazione tra i vari settori, e questo si rifletteva anche nei rapporti con i fornitori, in questo caso Morton Thiokol, responsabile della produzione dei booster. Il problema alle guarnizioni era noto, era già stato notato in molte analisi post volo, ma fu sempre sottovalutato.
Alla fine difatti nonostante la causa scatenante fu di tipo tecnico, ovvero la guarnizione indurita dal freddo, la commissione Rogers appurò che la vera radice del problema risiedeva nella cultura stessa della NASA all’epoca dei fatti, troppo retrograda e non comunicante tra vari settori.
A causa di questo incidente la stessa agenzia spaziale imparò a caro prezzo a non dare più nulla per scontato, difatti potè volare di nuovo solo il 29 Settembre 1988, trentadue mesi dopo, con la navicella Discovery in una missione denominata “Ritorno al Volo”.