Articoli come la recensione di Rapiniamo il Duce, presentato alla 17esima Festa del Cinema di Roma, appartengono a quella categoria che può mettere facilmente in difficoltà perché mette di fronte al dover dare una spiegazione logica di un passo falso francamente impronosticabile, sia per quanto riguarda la storia produttiva del lavoro che per i nomi coinvolti, davanti e dietro la camera.

Il team creativo è ancora il trittico composto da Renato De Maria (regista e sceneggiatore), Valentina Strada e Federico Gnesini (coautori), che con Netflix avevano già dato vita a Lo spietato del 2019, il film con Riccardo Scamarcio che si rivelò solido ed equilibrato e che giustamente ebbe un ritorno di pubblico piuttosto rimarchevole.

Tant’è che non sorprese nessuno la notizia di una nuova collaborazione tra loro e il colosso dello streaming.

L’elemento crime in un certo senso c’è ancora, ma stavolta è coniugato più nella sua accezione da heist movie fuso con il revisionismo storico che tanto piace agli americani e che da un po’ di tempo a questa parte ha coinvolto anche varie produzioni nostrane, specialmente quando si è trattato di lavorare con una “mentalità d’oltreoceano”.

A ben vedere anche il concept sembrava a prova di bomba, data la volontà di fonderlo con un’idea da commedia blockbuster classica arricchita da degli attori in grado di garantire una certa polivalenza anche dal punto di vista del registro linguistico. Parliamo di un cast che vede la convivenza di personalità come Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Tommaso Ragno, Filippo Timi, Maccio Capatonda e Isabella Ferrari (moglie di De Maria nonché l’attrice probabilmente più in parte all’interno della pellicola).

Una formula che si appella ad una certa libertà creativa (tale da permettere, per farvi capire, la presenza di Tutto Nero di Caterina Caselli nel repertorio di una cantante del 1945 senza per questo far drizzare i peli sulle braccia di nessuno), facilmente accompagnabile da qualsivoglia trovata visiva (fumetti e Moulin Rouge) e che richiedeva solamente il rendere coinvolgente una struttura piuttosto semplice e strautilizzata (sempre dalle parti di Hollywood).

Eppure il risultato è incredibilmente non convincente sotto quasi tutti i punti di vista.

Andiamo con ordine.

 

L’incorreggibile Isola

Milano, 1945. Siamo ormai al tramonto della Seconda Guerra Mondiale e il capoluogo lombardo è una città fiaccata dal protrarsi del conflitto, accentuato dai continui bombardamenti di matrice anglo-americana e dagli scontri con la Resistenza italiana, e dalla tirannia con la quale l’amministrazione fascista, guidata dal gerarca Achille Borsalino (Timi), gestiva la cosa pubblica.

In questo scenario ormai il panorama è dominato da piccole bande criminali che cercano di sopravvivere come possono, soprattutto tramite il contrabbando e piccoli e grandi furti. Una delle più importanti in città è quella capitanata da Isola (Castellitto), ladro gentiluomo, il quale, insieme ai compari (ma più che altro familiari) Marcello (Ragno) e Amedeo (Luigi Fedele), cerca in ogni modo di racimolare un gruzzolo abbastanza ampio per lasciare il Paese.

Se vogliamo essere precisi, Isola lo fa soprattutto per la ragazza che ama, Yvonnne (De Angelis), cantante di un locale milanese, che però è anche l’amante di Borsalino. Non che questo la entusiasmi troppo, capiamoci.

Rapiniamo il Duce

L’opportunità ghiotta si presenta quando arriva all’orecchio del ragazzo la possibilità di rubare il tesoro di Mussolini (tesoro nel vero senso della parola, cioè quell’accumulo di ricchezze inviate da tutte le parti del Paese, o in alternativa rubato da tutte le parti del Paese, come finanziamento alla Causa), con il quale il Duce si è prefissato di fuggire in Svizzere insieme ad alcuni fedelissimi.

Per realizzare tale intento Isola decide di radunare una banda di super esperti.

C’è la donna gatto (leggi alla voce: atletica ladra esperta di parkour), Hessa (Coco Rebecca Edogamhe), il vecchio partigiano esperto di esplosivi, Molotov (Alberto Astorri) e il più grande pilota italiano ora caduto in disgrazia, Giovanni Fabbri (Capatonda).

La banda perfetta per il colpo perfetto, che non andrà mai esattamente per com’è stato progettato.

Dalla teoria alla pratica

Rapiniamo il Duce è il più classico dei film in cui un gruppo di outsider, al di sopra delle parti e senza nessun interesse per il contesto storico in cui vivono che esuli dalla loro stretta sopravvivenza, si uniscono per realizzare un qualcosa di così talmente audace da diventare, in qualche modo, possibile.

Quello che serve ad un film del genere, di solito, è una concept azzeccato, il giusto cast, un ritmo sostenuto e un bel mix di dramma e azione.

Filippo Timi

Sulla carta c’è tutto. La Milano anni ’40 in stile hollywoodiano elegante e ben fotografata in contrasto con una visione dei fascisti in salsa soft tarantiniana, un cast che promette un mix da scintille e in più inseguimenti, scazzottate, esplosioni e una storia d’amore sofferta.

Eppure, incredibilmente, quasi nulla funziona come potrebbe.

Lo stile fumettoso non si integra praticamente mai con il resto del film, risultando superfluo e non sempre ben realizzato, e la resa di Milano (tolto qualche interno) è così estraniante da renderla, praticamente, una città di fantasia, tale che potrebbe anche non essere italiana. Ma quello che più penalizza il film è la scrittura e, a cascata, le prove attoriali.

Tutto è iperspiegato, fortemente didascalico, poco realistico e istintivo e dunque poco credibile e coinvolgente.

Isabella Ferrari

A pagare le conseguenze più di tutti sono Castellitto, la De Angelis e Capatonda. Il primo sorprende più di tutti dato l’attore che è, la sua presenza scenica e la sua abilità nel riuscire a destreggiarsi tra registri linguistici differenti, mentre gli altri due fanno, per motivi diversi, un film a parte. La De Angelis (attrice molto brava anche lei) ha un carisma e un magnetismo importanti, tanto da catturare la scena quando il film è su di lei, salvo poi evidenziare un isolamento quasi emotivo quando è in scena con gli altri, completamente dedita ad una drammaticità fuori scala rispetto al tono che ha il resto del cast. Capatonda fa se stesso e lo fa bene, ma anche lui risulta spesso un pesce fuor d’acqua.

Rapiniamo il Duce è un grande punto interrogativo perché ha in sé tante, tante, tante cose belle, ma nel suo accordarle diventa confusionario, derivativo e anche piuttosto noioso, come se puntasse sulle note sbagliate per suonare al meglio. La scena finale (alla Indiana Jones e l’ultima crociata) è l’emblema di cosa è il film, pregi e difetti. In teoria perfetta, in pratica mal legata. Un peccato. Probabili sequel.

Rapiniamo il Duce è disponibile su Netflix dal 26 ottobre 2022.

50
Rapiniamo il Duce
Recensione di Jacopo Fioretti

Rapiniamo il Duce è il nuovo film Netflix diretto da Renato De Maria, che lo co-scrive insieme a Valentina Strada e Federico Gnesini. Si tratta di un heist movie classico ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale che guarda al concept nordamericano per raccontare la storia di un gruppo di emarginati tra dramma e commedia. Si avvale di un'idea visiva originale e interessante e un cast d'eccezione guidato da nomi come Pietro Castellitto, Matilda De Angelis, Tommaso Ragno, Filippo Timi, Maccio Capatonda e Isabella Ferrari. Un'operazione a prova di bomba che si rivela però incredibilmente deficitaria per scrittura, montaggio, ritmo narrativo e prove recitative. Un enorme peccato dato che tutte la maestranze, dietro e davanti la camera, hanno dato invece prova di essere un fiore all'occhiello del nostro cinema.

ME GUSTA
  • Il concept della Milano anni '40 è ottimo.
  • La prova di Isabella Ferrari e Filippo Timi.
  • Ottimo la resa dei fascisti in stile soft tarantiniano.
  • Qualche momento di fusione sufficiente tra commedia e dramma.
FAIL
  • La scrittura è iperdidascalica e poco credibile.
  • La prove di recitazione di gran parte del cast sono sottotono.
  • Il montaggio e il ritmo danno un duro colpo ad un heist movie che vive di velocità ed empatia con i protagonisti.
  • L'elemento fumettoso risulta superficiale, male integrato e a volte male realizzato.