La malattia di Alzheimer-Perusini, detta anche morbo di Alzheimer, è il tipo di demenza più comune e colpisce 50 milioni di persone in tutto il mondo. Si prevede che il numero triplicherà in meno di 30 anni. In Italia i malati di Alzheimer sono un milione e mezzo, dato diffuso da un rapporto della Federazione Alzheimer Italia, la quale afferma che nel 2050 il numero salirà a 2,3 milioni, visto il tasso esponenziale di crescita di popolazione colpita dalla malattia negli anni: l ’Italia è il paese -per così dire- più longevo d’Europa, con 13,4 milioni di ultrasessantenni, pari al 22% della popolazione. Vivendo questo forte invecchiamento della popolazione, le persone colpite dal morbo sono destinate ad aumentare progressivamente.
Occorre fare una distinzione tra demenza senile e Alzheimer che spesso vengono confuse anche se sono due condizioni diverse: la demenza è una condizione naturale della senilità appunto, dell’invecchiamento, l’Alzheimer è una malattia invece, un morbo, una condizione cronica e degenerativa causa diretta di morte, al contrario della demenza senile. Le due vengono spesso sovrapposte e confuse, forse, perché hanno come punto in comune l’età di chi ne soffre. Come nella demenza, anche per il morbo di Alzheimer l’età è il fattore incidente principale, ma anche la storia genetica familiare ha un impatto sullo sviluppo della malattia.
Detto questo, sappiamo come con l’avanzare dell’età del paziente possono svilupparsi sintomi diversi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto ad isolarsi dalla società e dal suo contesto famigliare. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. Anche se la velocità di progressione può variare, l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni. La causa e la progressione della malattia non sono ancora ben comprese. La ricerca indica che l’insorgere del morbo è strettamente associato ad una classe di proteine, le amiloidi, componenti stabili del nostro sistema immunitario, che nella malattia si aggregano in placche e ammassi nel cervello detti neurofibrillari. Quello che non è ancora noto, almeno fino ad oggi, è la causa principale della degenerazione di queste proteine.
Lo studio
Il gruppo di ricerca della Scuola di Fisica, Ingegneria e Tecnologia dell’Università di York, ha osservato due varianti della proteina amiloide, entrambe ampiamente presenti nei pazienti colpiti da Alzheimer. Queste proteine si condensano in strutture che assomigliano a gocce d’acqua le quali si accorpano in ammassi che compromettono il normale funzionamento del cervello. Le proteine amiloidi iniziano ad aggregarsi circa 10-15 anni prima del manifestarsi dei primi sintomi.
Quello che non è ancora chiaro però, è il meccanismo tramite il quale le “goccioline” diventano un’unica massa. Sebbene le proteine amiloidi siano ritenute una componente importante del sistema immunitario, è la versione anomala della proteina che preoccupa perché, raggruppandosi, diventa potente e nociva andando ad interferire con le normali attività cerebrali. “Comprendere le precise modalità a livello molecolare con cui si formano gli ammassi di amiloide può aiutarci a progettare farmaci migliori, in grado di combattere la malattia di Alzheimer nella fase più precoce possibile”, ha dichiarato il dottor Steve Quinn, borsista dell’Alzheimer Research UK e docente di biofisica all’Università di York. L’ “ipotesi amiloide” spiega che l’Alzheimer potrebbe essere causato dalla deposizione e dall’accumulo di composti amiloidi nel tessuto cerebrale, causando la patogenesi, ovvero, lo sviluppo della malattia.
Con queste motivazioni, i ricercatori hanno puntato tutto su un modello matematico da loro studiato e sviluppato, per scoprire come le proteine tossiche si aggregano nel cervello durante le prime fasi della malattia e per agire su questa formazione nel trattamento farmacologico della patologia. Il team di ricerca ha sottolineato che è la prima volta che vengono esaminati i dettagli delle prime fasi di formazione degli ammassi amiloidi.
La strada per futuri trattamenti
I ricercatori di York, hanno dichiarato che la scoperta potrebbe essere utilizzata per studiare protocolli terapeutici futuri. “Le proprietà dei grandi ammassi preformati sono state studiate in modo approfondito, ma finora è stato difficile valutare i dettagli a livello molecolare della fase iniziale di assemblaggio”, ha dichiarato il dottor Charley Schaefer, autore principale dello studio. I ricercatori sperano che comprendere esattamente i processi di formazione degli ammassi di proteine tossiche gli consentirà in futuro di sviluppare trattamenti farmacologici mirati per scoraggiare la formazione di ammassi di amiloidi nelle fasi precoci del morbo di Alzheimer. Attualmente, i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici in termini di attenuazione dei sintomi e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l’identificazione di un possibile trattamento per l’Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso. In questo contesto quindi, lo studio dei ricercatori di York rappresenta un grande passo avanti nel trattamento della malattia.
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