Iniziamo la recensione di Un Couple, presentato in concorso a Venezia79, prendendoci un attimo per fare un po’ di cronistoria intorno al concepimento di una pellicola che, nonostante segni il debutto (a 92 anni) alla regia di un lungometraggio di fiction (ma di questo ne riparliamo) nella carriera di un maestro indiscusso del documentario come il sempre poco celebrato (ma comunque celebrato: Leone D’oro e Premio Oscar alla carriera) Frederick Wiseman, ha comunque non poche affinità con i suoi lavori precedenti e dei motivi contestuali da sottolineare.
Innanzitutto la pellicola è stata girata nell’anno della pandemia, dunque può essere benissimo vista come una risposta di un regista abituato ad occuparsi soprattutto delle documentazione istituzionale all’impossibilità di procedere con le sue indagini in luoghi abitati da persone.
Non a caso abbiamo a che fare con un titolo con una sola attrice, la francese Nathalie Boutefeu (musa di Jérôme Bonnell e, soprattutto, di Olivier Assayas), che ha tra l’altro collaborato con Wiseman anche alla scrittura, e girato tra gli splendidi paesaggi dell’isola Belle-Île, situata al largo della costa della Bretagna, in Francia. Quindi all’aperto e in isolamento. Si può poi, ipotizzare anche che l’esigenza di tale pellicola possa essere maturata ulteriormente nel cineasta dopo la scomparsa della moglie occorsa nel 2021, con cui era sposato da più di 60 anni.
Per le affinità con il corpus filmico antecedente invece scorrere sotto.
Una vita di coppia in un monologo
La struttura di Un Couple si spiega in due righe: si tratta della rielaborazione in forma di monologo di un mosaico di parti tratte dalle lettere che Sof’ja Tolstaja, la tanto vituperata compagna di vita e madre di 13 figli del ben più celebre (eufemismo) Lev, incolpata di essere stata più volte un freno per il leggendario autore russo soprattutto dal punto di vista morale, ha inviato al marito nel corso della loro vita matrimoniale.
In esso non si fa fatica a cogliere un ritratto ben poco lusinghiero dell’uomo Tolstòj ed una parallela riaffermazione della forza della moglie.
Anche se in realtà per sviscerare questo argomento bisognerebbe aprire un file sulla cultura dell’epoca, su quale fosse l’autoconsapevolezza della donna e la sua idea nel ruolo di madre, amante e compagnia di vita, la concezione del matrimonio in sé e persino lo status di salute di Lev, che per usare un (altro) eufemismo ha vissuto una vita di forti tensioni interiori. Insomma, il contenuto selezionato non è così potente da riuscire ad assolvere ad un compito difficile come quello di catturare chi guarda (e chi ascolta) per tutto il tempo che dovrebbe.
In realtà forse non era neanche questo quello che interessava al maestro, perché ciò che è più forte, che “ruba” veramente la scena è la mancata presenza del destinatario delle missive, la cui enorme aura nasce dalle parole di Sofia e prende “invisibile forma”. Forse qui è il vero azzardo cinematografico del maestro, creare una potenza evocativa, soprattutto appoggiandosi al contesto naturale.
Il controcampo è ciò che dà un filo emotivo reale ai circa 60 minuti della durata della pellicola (percepiti, ovviamente, come molti, ma molti di più).
Il peso di ciò che non c’è? La possibilità per il pubblico di avere un ruolo più inclusivo all’interno di quella che è, a tutti gli effetti, un’interpretazione teatrale, come quelle di cui il cineasta di Boston si è già occupato già nel 1980 con Seraphita’s Diary o, più recentemente, con The Last Letter del 2002.
Ecco le affinità, vedete che piano piano arrivano?
Una trovata che comunque non ha dato i frutti sperati, soprattutto e proprio a causa dell’interpretazione del testo, perché il duo Wiseman / Boutelefeu non riesce mai veramente a sprigionare un feeling tale da coinvolgere lo spettatore, che dopo le primissime battute rischia di perdere non solo interesse, ma proprio un contatto con il contenuto delle lettere. E pensare che i due avevano collaborato in una produzione in lingua francese dell’opera teatrale di Emily Dickinson “The Belle of Amherst”, in cui l’attrice era stata già all’epoca protagonista di una serie di monologhi.
In più cronaca vuole che sia stata sempre lei a proporre al cineasta i passi del diario da inserire in sceneggiatura.
Documentare la fiction
C’è quindi quasi subito un solco effettivo tra primo e secondo piano. Un’evenienza parossistica se si pensa che le precedenti pellicole, come altre in cui il maestro si è occupato della documentazione di performance teatrali, mancavano proprio di quello che questa volta c’è eccome, ovvero una cornice viva, meritevole di uno sguardo cinematografico. Per capirci: in precedenza c’era il palcoscenico e poco altro ora c’è molto di più.
Il risultato è che l’occhio e il modo di filmare di Wiseman si riconosce, o meglio, anzi, si eleva solamente quando la Boutelefeu non è in scena. Scusate la correzione in corsa, ma altrimenti saremmo veramente troppo ingiusti.
Nelle riprese si esalta la contrapposizione tra la natura, portatrice sia una di una dolcezza e una serenità bucolica, e la forza bruta e, in qualche modo, alla minaccia delle onde del mare, che in chiave figurativa attentano alla contemplazione di Sofia, mentre legge i suoi scritti, piuttosto che ispirarli. Un esperimento dunque in larga parte fallito, perché il soggetto parlante arriva a soffrire infine sia le parole che pronuncia sia gli elementi dell’ambiente in cui recita all’occhio e all’orecchio dello spettatore, il quale non trova nessun tipo di attrattiva per il volto e la prossemica della componente umana. Elemento che invece è sempre stato uno degli indiscutibili punti di forza della filmografia del regista.
La mancanza di un’integrazione tra gli unici due livelli della pellicola è per Un Couple una caratteristica incredibilmente penalizzante, che si esalta nel momento in cui la Boutelefeu “interagisce” direttamente con la natura circostante. L’interprete viene forse tradita infine proprio da Wiseman, che, curando come suo solito anche sonoro e montaggio, propone come versione finale al pubblico un taglio che si va man mano staccando dall’attrice, cercando di conservarne però il recitato. Tentando quindi una fusione finale, magari tra due assenze / presenze? Detto tutto ciò, se esce una pellicola di Wiseman il consiglio è dargli un’occhiata, in ogni caso.
Un Couple è il primo film di fiction (anche se una dimensione più ibrida per questo titolo forse sarebbe più corretta) di Frederick Wiseman, uno dei più grandi maestri della storia del documentario americano, presentato in concorso alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Il maestro torna a filmare performance teatrali, stavolta lontano dal palcoscenico, ma immerso nella splendida natura di un'isola bretone. Protagonista è la Sof'ja Tolstaja di Nathalie Boutefeu, che si cimenta in un monologo composto da una serie di parti trarre dalle lettere della compagna di Lev indirizzate proprio al marito. La pellicola pecca di un reale feeling tra regista e attrice, che non si viene quasi mai a creare, finendo con il depotenziare il contenuto epistolare e ad isolare lo spettatore, il quale si trova tagliato fuori quasi da subito. Lo sguardo di Wiseman si recupera soprattutto nelle riprese dell'ambiente circostante. L'esperimento reale è quello di dare l'importanza maggiore al controcampo, a ciò che non si vede sullo schermo, ma ciò non basta ad elevare il film al punto da renderlo immersivo.
- Lo sguardo di Wiseman, quando riesce a trovare il modo di elevarsi è sempre affascinante.
- L'esperimento del cineasta che passa per l'importanza del controcampo, l'esaltazione dell'assenza, è interessante.
- Non sboccia mai il feeling tra interprete e regista.
- Non c'è integrazione tra primo e secondo piano.