Dopo Ex Machina e Annientamento, Alex Garland, autore estremamente interessante e di cui è sempre un enorme piacere perdersi nelle sue visioni, torna sul grande schermo questa volta sperimentando con un horror folk dal sottotesto sociale e risvolti più cruenti. In bilico tra simbolismo e reale, a volte fin troppo estetico, altre estremamente efficace.
Potremmo iniziare, quindi, questa recensione di MEN dicendo che l’opera di Garland è pura sperimentazione di genere. Si parte con un quadro bucolico e onirico, passando per un vero e proprio incubo morboso e oppressivo ad occhi aperti, fino ad arrivare al vero e proprio body horror. Una pellicola che sa come tenere salda l’attenzione dello spettatore su di sè, grazie anche ai suoi due interpreti, ma che al tempo stesso si mostra quasi divisa in due.
Una prima parte sicuramente più convincente, scorrevole e lineare; una seconda dove Garland sembra incastrarsi un po’ troppo su un certo tipo di immagine, di suggestione, sacrificando la narrazione, la storia stessa, a favore dell’immagine poetica.
Un film che nasce con l’intento non solo di sorprendere e disturbare ma, soprattutto, provocare, tanto per le immagini quanto per le tematiche. Ricordate Promising Young Woman di Emerald Fennell? Il filone è quello! Solo che la Fennell ha preferito la commedia nera, Garland si lancia direttamente nell’horror. La dimensione del perturbante che ingloba fantasia e realtà, eccitazione e terrore, sacro e profano. E, sono assolutamente sicura, che a molti non piacerà proprio per l’esposizione del tema. Quando, parliamoci chiaro, nessuno è responsabile della vostra coda di paglia!
Poi, se esteticamente e narrativamente il film non vi prende, è un altro discorso. Sicuramente non siamo di fronte ad un film perfetto o esente da difetti, tutto il contrario!
L’Eden, Adamo, Eva e il frutto del peccato
Proseguendo per questa recensione di MEN, cosa ci vuole davvero raccontare Alex Garland? Molte cose. Ci parla prima di tutto della nostra società e di quell’orribile pratica di colpevolizzare la vittima, in qualsiasi caso. In questo caso non ci sono gonne troppo corte oppure ore della notte in cui non è il caso passeggiare da sole; in questo caso c’è solo una donna e un uomo la cui relazione non funziona più. Lei lo accetta, lui no. Lui reagisce, compie delle azioni. Lei ne paga le conseguenze, anche agli occhi di sconosciuti. E questo “pagarne” le conseguenza assume molteplici volti e sfumature, anche se poi il volto è solo uno: la colpa.
Quel senso di colpa che spesso ci attribuiamo anche quando non è colpa nostra, o che ci viene attribuito da un certo tipo di società, quella ancora legata ai famigerati “valori patriarcali”, quella che ha dato vita alla cultura dello stupro (alimentata tanto dagli uomini quanto dalle donne, lo specifichiamo sempre per le stesse code di paglia citate prima). Quel maledetto “se” all’inizio di ogni frase che presuppone, appunto, che se ci fossimo comportati in maniera diversa, adesso non staremmo piangendo la nostra stessa disgrazia. Si, perchè poi la fine del dialogo porta sempre e solo a questo: la colpa. O al massimo a strumentalizzare le vere disgrazie, se così vogliamo proprio definirle, per i proprio scopi. Già, anche in campagna elettorale. Ma torniamo al film!
Torniamo alla nostra protagonista, al suo trauma e a quel senso di colpa da cui scappa nella campagna inglese. Due settimane di pace e solitudine, immersa in un perfetto paesaggio bucolico. Un vero e proprio Eden dove “Eva” cammina tra alberi ricchi di mele, ne coglie il frutto e ne saggia la succosa consistenza. Un sapore dolce e confortante. Un sapore che sembra essere l’inizio della cura, per poi rivelarsi una vera e propria metaforica discesa negli inferi.
Abbiamo parlando di mele, Eden ed Eva, Adamo quindi dov’è? È lì. Proprio lì. E non è solo. Ha il volto di un gentile campagnolo imborghesito, quello di un poliziotto scettico, quello di un barista annoiato ma anche di un ragazzino pestifero e, addirittura, di un parroco apparentemente gentile ma erotomane. E, ovviamente, Adamo si aggira nudo per i boschi. Ferino. Impulsivo. Ossessivo.
E sbigottita la nostra Eva, che in realtà si chiama Harper Marlowe ed è interpretata da una bravissima Jessie Buckley, assiste a tutto ciò da vittima non creduta, per poi essere colpevolizzata di una colpa non sua.
Perseguitata. Braccata. Molestata. Lasciata sola. Completamente abbandonata.
Ed è proprio qui che il film prende un sapore diverso, più pesante ma anche meno razionale. Un loop di incubi e simboli, ma anche di consapevolezza, quella che effettivamente abbraccia Harper e le mette in mano un coltello per uccidere quel senso di colpa, quell’ingiustizia, quel pregiudizio, quell’umanità tanto tossica quanto violenta.
MEN, i veri mostri siamo noi
Fin dal titolo, quello che potremmo definire una vera e propria dichiarazione di intenti, MEN si dimostra essere una chiara allegoria sul nostro mondo. Garland ci parla di quelle persone non credute, ci trasmette quella sensazione soffocante e terrificante di paura, isolamento, abbandono da tutto e tutti, lasciandoci quasi credere di essere davvero noi i colpevoli. Ovvio che la realtà sia differente, ma è proprio di realtà che parla questo film. Una realtà dove gli uomini, quel tipo di uomini, hanno lo stesso medesimo volto e ne generano altri, altri come loro. Uomini convinti del loro machismo e che la loro virilità posso manifestarsi solo attraverso la violenza, la prepotenza, la possessione del corpo femminile. Ma non solo. Il machismo si mostra anche nella negazione alla fragilità, alla sensibilità, all’umanità dello stesso genere maschile. Non è solo una questione di genere. È soprattutto una questione umana ma che spesso e volentieri viene sfogata proprio su quel corpo femminile che diventa simbolo per Garland. Del resto le molteplici sfumature dell’essere donna, Garland le ha sempre messe al centro del suo racconto.
Un corpo femminile che però non ci sta. Si ribella. Urla alla propria rivoluzione, alla propria ribellione e libertà, e se proprio deve essere accusata di qualcosa, allora che sia qualcosa di reale, qualcosa che urli quel NO e lo imprima, in ogni modo possibile, sulla carne.
Ciò che più resta impresso di questa pellicola, a parte gli straordinari scenari nei quali ci fa perdere il regista e dove la macchina da presa prima è compagna pacifica della protagonista, poi diventa sguardo nascosto ed infine soggettiva insistente e morbosa, è proprio quel senso di disagio. Quella sensazione dell’essere osservati, toccati, desiderati in modo inopportuno, facendoci sentire come un pezzo di carne in vetrina, un animale da addomesticare, sottomettere, domare.
Una sensazione cara a molte persone, anche solo andando a fare la spesa, tornando da lavoro, passeggiando di pomeriggio. Quell’insistenza, quell’ossessione che quando viene denunciata viene spesso presa alla leggera. Ragazzate o paranoia o egocentrismo. E chissà perché, quando poi si viene creduti, è sempre troppo tardi.
Quello stesso tipo di sensazione, incentrando tutto più sullo stalking e sull’impotenza della vittima che, però, sa come prendersi la sua rivalsa, l’aveva fatto anche Leigh Whannell con la recente rivisitazione de L’uomo invisibile. In quel caso, Leigh Whannell forse è stato perfino più efficace di Garland. Si, perché come dicevo all’inizio, Garland nella seconda parte di film rimane fin troppo vittima delle sue suggestione, di quell’immaginario simbolista che un po’ soffoca la pellicola.
L’estetica a sfavore dell’immagine
Proseguendo ed avvicinandoci alla conclusione di questa recensione di MEN, dobbiamo sottolineare le inevitabili note dolenti di questa pellicola e che, inevitabilmente, vanno a soffocare un po’ tutto l’apparato narrativo.
L’abbiamo già detto, MEN potrebbe essere un film diviso in due parti. Se la prima ci ha completamente fatto innamorare, la seconda, cioè quella più puramente horror, vorticante e labirintica, ci mostra una serie di problematiche. Problematiche comuni a film come MEN e, in modo particolare, alla china dell’ultimo anno intrapresa dalla stessa A24.
Si, abbiamo indubbiamente bisogno di un cinema horror più ricercato, più profondo, meno mainstream ma ben più ragionato; questo però non vuol dire perdersi in tanti voli pindarici che poi lasciano tra le mani un po’ poco. L’estetismo, l’immagine poetica, vanno benissimo, soprattutto quando vengono ben domate. Il vero problema è quando tutto questo va letteralmente a schiacciare la narrazione.
Cosa stavo dicendo? Di cosa stavo parlando? Mh, però cavolo, che bellissima inquadratura che ho fatto!
Adesso, questo è un modo un po’ spicciolo e brutale per farvi capire a cosa faccio riferimento, ma sicuramente efficace. E film come LAMB, X – A Sexy Horror Story sono la prova di quanto appena affermato.
Quello che fa Alex Garland è perdersi completamente in una suggestione, innamorarsi di un certo tipo di estetica che, se abusata, svia completamente l’attenzione dal focus. Distrae lo spettatore e disperde il messaggio. E anche se il messaggio non c’è, comunque allontana l’attenzione dal fulcro di tutto questo.
Senza ombra di dubbio alcune trovate di Garland in questa seconda parte sono molto efficaci, ma al tempo stesso più l’atmosfera si fa pesante e il loop veloce, più si ha la sensazione di perdersi completamente. La sensazione che qualcosa stia sfuggendo al nostro controllo o, meglio, sia sfuggita al controllo del regista.
Per farvela ancora più spicciola, il less is more non è un semplice modo di dire!
La forza di MEN: i suoi protagonisti
Non basterebbero tutte le parole del mondo per esprimere la bravura e la forza di Jessie Buckley e Rory Kinnear, protagonisti di questo film; lei con si suoi sguardi e le sue espressioni, lui con i suoi personaggi cangianti ed inquietanti.
Due soli attori per un lavoro davvero eccellente che lascia i brividi addosso dall’inizio alla fine. Si completano in maniera praticamente perfetta, riuscendo a non cannibalizzarsi mai a vicenda durante il corso del film, ma trovando sempre il modo di essere entrambi protagonisti efficaci della scena.
Jessie Buckley – candidata proprio quest’anno all’Oscar come miglior attrice non protagonista per The Lost Daughter (presentato lo scorso anno in Concorso al Festival di Venezia) – ha lavorato moltissimo sulle espressioni. Il suo sguardo sfuma da dolore alla colpa, dalla paura alla rabbia, dalla fragilità alla sicurezza. Il tutto viene adoperato in un continuo crescendo armonioso e coerente con l’arco di sviluppo del personaggio. Il suo personaggio buca lo schermo e porta il pubblico ad empatizzare con ognuna dell’emozioni che l’attrice vive nel film sulla sua pelle a seconda della situazione.
Rory Kinnear, enorme attore teatrale britannico che già con la sua Creatura in Penny Dreadful ci aveva davvero fatto innamorare, supera qualsiasi tipo di prova attoriale. Al di là dei volti sempre uguali di tutti i personaggi che interpreta, ognuno di questi ha una vita propria. Una caratterizzazione originale che passa anche dalla parlata (fondamentale la lingua originale perché tanti cambi di tono ed accento si perdono completamente nel doppiaggio), dal modo di porsi, di comportarsi e ragione, per quanto poi il risultato finale sia sempre lo stesso: la brutalità.
Altri elogi sarebbero davvero inutili. La forza di MEN risiede esattamente in questi due attori e anche solo per la loro performance, il film vale il prezzo del biglietto.
MEN vi aspetta in sala dal 24 Agosto con Vertice 360
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MEN è un'ottima sperimentazione di genere da parte di Alex Garland, mente sempre più interessante e da tenere sott'occhio. La rivisitazione del tema, per quanto non originale, si mostra essere necessaria ancora una volta, portando nuovamente il genere horror come uno dei massimi filtri e veicoli del reale. Un peccato come l'innamoramento di Garland per un certo tipo di espedienti estetici, fin troppo marcati, gravi sulla parte finale del film, appesantendo e lasciando troppo in secondo piano la storia stessa che si perde del tutto. Un lavoro di sottrazione maggiore, ci avrebbe regalato un'incredibile pellicola.
- Gli scenari bucolici e onirici e la capacità di Garland di farci perdere in un sogno ad occhi aperti per buona parte del film
- La forza del tema e il modo in cui viene sviluppato durante il film, colpendo duramente lo spettatore, portandolo ad empatizzare con la protagonista
- Jessi Buckley e in particolar modo Rory Kinnear, assolutamente straordinari e sorprendenti l'uno più dell'altra
- Le musiche di Geoff Barrow, ancora una volta ad accompagnare Garland in una follia
- Il simbolismo che, soprattutto sul finale, finisce col diventare troppo fine a se stesso
- L'estetica talmente tanto massiccia che finisce col soffocare la storia stessa