Ma quanta fatica si fa ad uscire dalla comfort zone (la parola più fastidiosa degli anni Duemilaventi tra l’atro)? Si tratta di crescere, di maturare, di vincere le proprie battaglie, guardare negli occhi nostro padre senza chinare il capo, comunicandogli che si è pronti (o si pensa di esserlo). Quante volte capita di fare il balzo con il rischio di snaturarsi, di non ritrovarsi cresciuti, ma distanti, proprio per scappare, magari, da quel padre. E allora che si fa? Nella società di oggi non è mai possibile guardarsi indietro, anche solo per prendere la rincorsa. Voltarsi è un fallimento secondo il credo popolare, ma se non si ha la saggezza di andare avanti our way, si corre il rischio di perdersi. Fallire correndo dietro agli altri, scegliendo per paura e non per voglia.
Perché tutto ‘sto intro esistenzialista prima della recensione di Black Phone? Ma ovviamente perché è ora che ricominci a fare terapia, anche se un po’ il nuovo film di Scott Derrickson parla di questo, intrecciando la scelta del suo regista di tornare al tanto caro horror Blumhouse dopo la parentesi MCU con Doctor Strange insieme alla vicenda che ha scelto di raccontare.
La casa del signor Blum è un fiore all’occhiello del genere, fucina di talenti e una delle poche realtà che ha quasi sempre azzeccato progetti, coniugando aspetti qualitativo e commerciale.
Derrickson lo sa bene, dato che con loro ha dato vita ad uno dei film di maggior successo della sua carriera, quel Sinister con protagonista Ethan Hawke con il quale il regista è tornato a collaborare per questa sua ultima creatura.
Una pellicola composta da diversi fili da riprendere per poter poi andare avanti. Non è un caso che sia ispirata al racconto breve omonimo contenuto nella raccolta Ghosts scritta da un certo Joe Hill, niente meno che il figlio di sua maestà Stephen King. Un altro segno di continuità con il passato guardando al futuro, alle nuove generazioni, al crescere con la consapevolezza di sapere da dove si è partiti.
Come si guardano altrimenti negli occhi i propri padri?
Black Phone è in sala dal 23 giugno 2022 con Universal Pictures.
I wish you were here
Negli anni ’70, in America, era esplosa la “moda” dei serial killer, tant’è che tantissimi tra le più importanti pellicole thriller / horror / slasher/ sovrannaturale targate USA che uscirono all’epoca avevano come protagonista una figura del genere.
Dei personaggi che portavano con loro un stigma sociale in grado di rappresentare, secondo gli autori e i cronisti, le conseguenze più oscure della trasformazione che il Paese aveva subito dopo la metà del secolo scorso. Ad indorare a piacere le menti dei giovani maschi alpha americani in erba ci pensava il fascino orientale della cosiddetta “bruceploitation”.
Black Phone parte un po’ da queste tre macrocoordinate, dopo tutto sia Derrickson che Hill saranno stati bambini a quei tempi.
Il serial killer del film, “The Grabber“, letteralmente “Il Rapitore“, è infatti ispirato ad una figura realmente esistita, il pluriomicida John Wayne Gacy, detto “Killer Clown“. In più sono presenti miriadi di citazioni, anche molto esplicite, a film dell’epoca (una su tutte Non Aprite Quella Porta), senza contare l’utilizzo di Super8 e di una fotografia volutamente sporca, vintage e spoglia; oltre ad una componente fisica, soprattutto nella prima parte, che richiama al mito delle arti marziali, con cui i ragazzi non disdegnano di misurarsi (quotidianamente) per mostrare agli altri la propria supremazia territoriale.
E poi il ragazzino più tosto di tutti cita direttamente Enter the Dragon (I Tre dell’Operazione Drago), più di così si può far poco.
Un trittico che non rimane un semplice tributo alle proprie ispirazioni, ma è talmente ben integrato da diventare componente essenziale del film, scacciando così quasi del tutto il rischio di incappare nel tanto vituperato effetto nostalgia. Poi ovviamente qualcosa di accessorio c’è, ma sono i dettagli che fanno la differenza quando si tratta di costruire una pellicola come si deve o meno.
Alla riuscita di questo importante traguardo ha giovato sicuramente la collaborazione tra Derrickson il suo fido co-sceneggiatore Robert Cargill. Traspare infatti per l’intero minutaggio come i due si siano divertiti a scrivere e a girare la pellicola, come se sentissero di stare facendo la proverbiale “cosa giusta”.
Così (non) son diventato mio padre
Dunque abbiamo detto del perché si era così affascinati dai serial killer all’epoca, uno specchio distorto in cui guardarsi, chiave per creare un binomio straordinario tra i due volti di una società (Halloween sei tu?) e Derrickson si rifà esattamente a questo, ponendo una figura sulla vetta di una catena alimentare da mascolinità tossica di cui è intrisa la realtà della piccola cittadina di Denver dove è ambientata la storia.
Finney (Mason Thames) è osteggiato da figure violente, a partire dai bulli della scuola fino al padre ubriacone e tiranno che intimidisce lui e la sorellina Gwen (Madeleine McGraw), bravissima tra l’altro. Lei è il femminile, erede del dono della madre e unica chiave per aprire la porta di un mondo al di sopra della realtà.
La loro alleanza è l’unica cosa che li tiene in vita in un mondo che fa di tutto per affogarli nella disperazione e nella crudeltà.
Quello che succede all’interno del seminterrato è ciò che, paradossalmente, funziona un po’ meno della pellicola, dato che la trovata di un telefono senza fili che squilla per mettere in linea il prigioniero di turno con i fantasmi delle vittime precedenti è la più scolastica “da rubare” a tutta quanta quell’idea cinematografica che ha contrapposto per anni il mondo dei bambini da quello dei grandi.
Eppure esso è il mezzo che rivela la vera natura di un coming of age mascherato da film horror, senza però modernizzare per nulla il messaggio e, anzi, ancorando la natura stessa della pellicola ad un’epoca che la settima arte però non sembra avere del tutto superato.
Il fatto che l’ostacolo sia il personaggio interpretato da Hawke salva molto la parte drammaturgica del titolo, dato che l’attore di Austin riesce ad alzare in modo sostanziale il livello della pellicola tutta quando spinge sull’acceleratore.
In conclusione Black Phone è un film di tutto rispetto, in linea della tradizione, efficace e dosato, in grado di giocare efficacemente con ciò da cui trae spunto (l’uso del jump scare, la scelta di precisi tagli in montaggio, la regia mai fuori luogo), ma che rischia di aggiungere poco rispetto a quello che il materiale di provenienza aveva già comunicato. Magari è stato un modo per raccogliere le idee e uscire realmente dal terreno casalingo senza emulare i maestri e senza fuggire, per questo, da loro. Rimane il fatto che, con tutti i suoi limiti, resta una pellicola molto godibile per gli amanti del genere, soprattutto per la cura dei particolari.
Black Phone è in sala dal 23 giugno 2022 con Universal Pictures.
Black Phone è un ritorno alle origini per Scott Derrickson, che ritrova la Blumhouse e Ethan Hawke per il suo nuovo horror dopo Doctor Strange. Il film è l'adattamento del racconto breve omonimo scritto da Joe Hill, figlio di sua maestà Stephen King e, di fatto, ha tutte le sembianze di una pellicola di genere degli anni in cui scrittore e regista sono stati bambini. Una grande cura per i dettagli, la padronanza della regia e del montaggio e la grande valenza citazionistica rendono il titolo sicuramente ben fatto, aiutate anche dalle prove degli attori, ma alla fine della storia rischia di rimanere ancorato alle sue origini. Un coming of age mascherato che vuole parlare di come si può crescere sconfiggendo i propri padri, ma prima guardandoli negli occhi, andando oltre loro rimanendo fedeli a se stessi.
- La riappropriazione di topoi cinematografici del cinema thriller horror americano anni '70.
- La cura per i dettagli, sia dal punto di vista formale che contenutistico.
- La direzione degli attori e la bella prova di Ethan Hawke.
- La scrittura del rapporto tra fratello e sorella.
- Alcuni elementi narrativi piuttosto scolastici.
- Il rischio di diventare un titolo da revival, ma senza nulla da dire di realmente nuovo.
- Probabilmente dirà poco o nulla a chi non ama il genere.