Quando Stephen King pubblicò Le Notti di Salem disse che il pensiero di base per l’ideazione del romanzo stava nel fatto che esistono piccole città e paesi negli Stati Uniti che, a causa della grandi distanze tra i centri abitati, potrebbero scomparire da un giorno all’altro senza che nessuno ne sappia niente. Ed il principio di base di Non aprite quella porta è questo: i larghi territori degli USA sono capaci di creare isolamento, arretratezza, disagio, ed il lungometraggio di Tobe Hooper del 1974 rimarcava questa cosa mettendoci di mezzo l’ispirazione degli efferati delitti commessi dal killer Ed Gein. Il film sequel cerca di contaminare queste tematiche con la nostra contemporaneità, creando un qualcosa che non funziona molto bene e di cui vi parliamo nel dettaglio in questa recensione di Non Aprite quella Porta.
Ridare vita ad un cult, senza riuscirci
Il lungometraggio disponibile sulla piattaforma streaming Netflix dal 18 febbraio racconta di un gruppo di giovani influencer che arrivano in Texas alla ricerca di un luogo abbandonato in cui portare vita e vitalità, con un’idea di progetto che va a cozzare con l’arretratezza di un ambiente più che ostile. La memoria degli avvenimenti degli anni Settanta continua ad essere viva, producendo anche una sorta di turismo dell’orrore, ma il terribile Leatherface, che non è mai stato identificato, si è insediato ad Harlow, ed incrocerà il suo percorso con il gruppo di giovani.
Alcune tematiche che sono state inserite in questo nuovo Non Aprite quella Porta potrebbero dare un tocco di attualità all’adattamento, ma, per come sono state sfruttate, non fanno altro che creare una sensazione di smarrimento e, arrivati ad un certo punto, fanno desiderare un ritorno ad i favoleggianti anni Settanta. Perché una storia come quella di Non Aprite quella Porta ottiene forza dall’idea di isolamento totale ed arretratezza, piuttosto che dalla presenza di influencer ed approcci social, che non fanno altro che smorzare un’atmosfera e delle tematiche e ambientazioni che funzionano ed hanno sempre funzionato in certe condizioni. Ad un certo punto la convivenza tra un attacco di Leatherface ed un giovane che riprende la scena, facendo una diretta social, cozza tremendamente con lo spirito di Non Aprite quella Porta, ed in generale con tutti gli horror americani figli della New Hollywood degli anni Settanta, che oggi si potrebbero definire “old but gold”. Il tocco di contemporaneità fatto in maniera superficiale danneggia un meccanismo che funziona da decenni.
Interessante era il fatto d’inserire una protagonista, la Lila interpretata da Elsie Fisher, che è un personaggio che deve convivere con il trauma di essere stata coinvolta in un attacco armato all’interno di una scuola, un tipo di evento con cui purtroppo spesso gli Stati Uniti si trovano ad avere a che fare a causa del proliferare di armi nel Paese. Ed in questo senso la contrapposizione con i killer improvvisati capaci di fare carneficine nelle scuole americane, ma non solo, fa apparire come una figura nostalgica il Leatherface che armato di motosega cerca di liberare la sua sete omicida. E sotto questo punto di vista il desiderio di sangue di Faccia di Cuoio non è altro che una colpa che i giovani influencer devono espiare, per aver portato la convivente dell’assassino a collassare improvvisamente. Non aprite quella Porta può apparire come un monito alla contemporaneità, che grazie al web crede di poter essere padrona di qualsiasi luogo del mondo, e che in realtà deve confrontarsi con dinamiche umane, sociali e geografiche ben più complesse.
Maneggiare male contemporaneità e schemi classici dello slasher
Queste tematiche, se pur interessanti vengono smorzate da un’incapacità di riuscire a gestire in maniera efficace degli elementi che potevano arricchire quella che di base è la solita storia slasher: un gruppo di giovani arrivano in un ambiente nuovo ed il maniaco di turno inizia la carneficina con i loro corpi. La base della storia è questa, ma anche sotto questo punto di vista manca qualcosa. Il Non aprite quella porta proposto da Netflix non riesce ad offrire grossa inquietudine, le apparizioni di Leatherface sono abbastanza telefonate, anche se le uccisioni truculente riescono a non dare un senso di narcisismo sadico, per un qualcosa di buttato a caso giusto per insanguinare lo schermi.
Per quanto riguarda l’aspetto da slasher-horror Non Aprite quella Porta funziona sufficientemente e fa ciò che deve fare, ma, paradossalmente, tutti gli elementi innovativi della storia sono stati mal gestiti indebolendone la base.
In tutto ciò viene sprecata anche l’apparizione di Olwen Fouéré nel ruolo di Sally Hardesty, la final girl del film originale, e la prima final girl di un film horror, che in questo nuovo adattamento cerca di essere sfruttata così come viene fatto con Jamie Lee Curtis nella nuova trilogia di Halloween. Il problema è che, a parte la premessa che vuole Sally pronta a vendicarsi di Leatherface, manca tutto l’impatto sulla scena del personaggio, che viene buttato lì in maniera abbastanza superficiale, creando un impatto emotivo ed empatico piuttosto basso. Questo sequel di Non Aprite quella Porta manca della capacità di sfruttare a pieno i canoni dello slasher, perché cerca di contaminare il tutto con la contemporaneità e con una serie di messaggi ed elementi che di base sarebbero anche interessanti ma che vengono buttati nella storia non centrando bene l’obiettivo.
In conclusione possiamo dire che questo sequel di Non Aprite quella Porta è un film che merita la visione per gli appassionati hardcore di horror e film slasher che, giustamente, hanno la curiosità e la voglia di capire la direzione che si è cercata di dare ad un franchise storico, ma si tratta di un lungometraggio più che trascurabile per chiunque sia alla ricerca di un film horror di qualità e che meriterebbe assolutamente la visione.
Non Aprite quella Porta è disponibile sulla piattaforma streaming Netflix dal 18 febbraio.
Non Aprite quella Porta è il film sequel dedicato alla popolare saga horror che, cercando di unire contemporaneità ed elementi classici dello slasher horror, non riesce a creare un lungometraggio all'altezza del cult di Tobe Hooper.
- Ci sono tutti gli elementi tipici dei film horror slasher.
- La mescolanza di elementi contemporanei e schemi tipici dello slasher crea un qualcosa di poco riuscito.
- Un film sequel che fa rimpiangere il cult del 1974 di Tobe Hooper.