In occasione della presentazione del film Reflection, pellicola in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, abbiamo intervistato il regista ucraino Valentyn Vasyanovych che con il suo sguardo penetrante non perde tempo a mostrare quanto tiene alla sua “creatura” e a quello che denuncia con la sua storia.
Valentyn Vasyanovych torna alla Mostra del Cinema di Venezia con il titolo in concorso Reflection (Vidblysk). Come il suo dramma del 2019 Atlantis, che ha vinto il premio come miglior film nella sezione Orizzonti ed è stato il candidato all’Oscar 2020, Reflection ci mette davanti agli occhi gli orrori della guerra russo-ucraina.
Mentre Atlantis è stato ambientato nel 2025, dopo la fine immaginata della guerra in corso, questo è ambientato nel 2014, il primo anno del conflitto. Il chirurgo ucraino Serhiy (Roman Lutskyi) sta cercando di affrontare le sfide del suo lavoro e sembra a disagio quando trascorre del tempo con sua figlia, l’ex moglie e il suo nuovo partner. Viene catturato dalle forze militari russe nell’Ucraina orientale, dove è costretto ad assistere i suoi rapitori e ad assistere a brutali torture e umiliazioni.
Lo scrittore-regista-cinematografo Vasyanovych presenta gli eventi in modo lineare, sia imitando il freddo distacco degli aggressori sia sottolineando il fatto che questi terrori non richiedono sensazionalismo.
Non servono primi piani, musica o narrazione per comunicare il dolore di un uomo torturato. Né sono necessari per suggerire l’agonia interna di un medico che prende la decisione silenziosa di porre fine alla vita di un altro per risparmiargli ulteriore dolore.
Ancora una volta Vasyanovych mantiene la sua macchina da presa statica e distante dagli eventi; a volte è difficile capire esattamente cosa sta succedendo a chi. Questo stile richiede grande empatia da parte del pubblico. Serhiy non è un gran chiacchierone, e sicuramente ha un disturbo da stress post-traumatico, quindi ci immaginiamo quali siano le sue risposte agli eventi.
Ma alcune conversazioni chiave con sua figlia suggeriscono che ha un’inclinazione poetica che lo sta aiutando ad affrontare il suo trauma.
Il suo confortevole appartamento moderno offre un contrasto con la miseria della prigione; e una grande finestra si affaccia sulla città. È in quella finestra che un piccione si schianta, lasciando un segno che affascina sua figlia: è allo stesso tempo sconvolgente e bello. Perché si è schiantato, chiede a suo padre, in una conversazione che si trasforma in parlare dell’aldilà.
“Ha visto un riflesso del cielo sulla nostra finestra”, risponde.
Per un uomo che ha assistito a tali orrori, c’è qualcosa di ammirevole nell’illusione ottimistica del piccione? È più felice immaginare che il suo destino sia infinito, prima della sua improvvisa scomparsa? Non ci sono risposte facili in questo film di Vasyanovych: un altro viaggio oscuro e inquietante con piccoli barlumi di bellezza. Ho avuto occasione di intervistare Valentyn Vasyanovych per il suo Reflection, ecco cosa mi ha raccontato:
Il regista dovrebbe spiegare il proprio film al pubblico oppure no?
Io credo che il regista dovrebbe creare un dialogo con il pubblico sul proprio film, ma non tanto per spiegarlo, ma per condividere pensieri e opinioni e ascoltare quello che viene percepito da fuori.
Perché ha scelto di far vedere la guerra ucraina e l’aspetto delle torture?
Nel mondo contemporaneo, che è spesso troppo pieno di informazioni, le notizie “nuove” diventano facilmente notizie “vecchie” ed è difficile mantenere l’attenzione del pubblico su qualsiasi cosa, anche su una guerra. La guerra in ucraina va avanti da molti anni ormai ma nessuno aveva mai parlato delle torture così e trovo assurdo che in Europa queste torture inumane stiano ancora accadendo e sono quasi più atroci della guerra. Non si parla più della guerra perché c’è già da molti anni ma è un dovere raccontare al pubblico delle torture.
Le UN sono riuscite a intervenire? Qualcosa è successo da quando si sa delle torture? Com’è possibile che non sia stato fatto ancora nulla?
Per me è molto difficile accettare che ci siano ancora delle torture nel cuore dell’Europa e che non si possa fare nulla. Per farle finire dovrebbe finire la guerra, ma cosa possiamo fare singolarmente? Quel territorio è occupato e nessuno può affrontare i servizi segreti russi non si possono controllare le loro azioni.
Non ha mai avuto paura di raccontare questa storia e mostrare le torture in questo modo?
Personalmente non ho paura, altrimenti non l’avrei raccontata. So però che ci sono molti agenti russi in ucraina e so che tutto può succedere. Molti giornalisti sono stati catturati proprio per questo motivo. Ma penso che sia la mia missione raccontare di queste torture. Penso che ci sia un modo per finire la guerra: bisognerebbe fermare tutto il sistema bancario che gira dietro la Russia e tutto quello che riguarda le materie prime (gas, petrolio) ma è assolutamente impossibile da realizzare.
Riguardo al taglio e alle inquadrature scelte per il film ha voluto creare delle scene simili a un quadro per dire che la storia si ripete? La fotografia ricordava quasi un quadro di Caravaggio…
No, non stavo pensando alla storia che si ripete ma è vero che ho lavorato alle inquadrature come se fossero dei quadri per rendere meglio le atmosfere. Quando rappresenti un tema così crudele come le torture in maniera artistica devi rendere quel senso di oppressione e violenza. Esteticamente volevo dare una sorta di distanza per renderlo tollerabile al pubblico nonostante le sue violenze.
Questa distanza che viene creata nel film per riuscire a sopportare le torture come è stata intesa? Perché sembra in realtà molto più forte e cruda da sopportare…
Ho preferisco dare un quadro completo della scena perché voglio che lo spettatore sia attento a ogni dettaglio. Preferisco montare la scena come se fosse un mosaico da costruire spetta alla sensibilità del singolo spettatore trovare i dettagli che lo colpiscono di più. Quindi dipende dalla sensibilità di chi sta guardando.
In generale anche i colori vengono usati per dare un’atmosfera particolarmente opprimente, l’ha sempre usato come linguaggio nei suoi film, si ispira a qualcuno?
Mi piace scegliere la giusta location perché sono stato direttore della fotografia come primo lavoro ed è quello che amo di più fare. Non puoi girare un film drammatico in un posto pieno di bei colori, la giusta location è sempre una buona partenza per un film.
La storia del piccione nel film era vera? Che significato aveva?
Sì, la storia del piccione era vera ed è successa proprio mentre ero con la mia famiglia. Un piccione si è schiantato contro la nostra finestra e questa cosa ha colpito molto mia figlia che ha iniziato a farmi tutta una serie di domande sulla vita e sulla morte. L’immagine che il piccione ha lasciato sulla finestra poi era molto particolare sembrava quella di un piccolo angelo caduto, c’erano rimaste piume e sangue e mi ha ispirato per il titolo del film. In pratica il piccione pensava di stare volando nel cielo e invece si è schiantato contro il suo riflesso che è pò quello che succede a noi quando sogniamo qualcosa o la idealizziamo e poi ci scontriamo con la realtà delle cose.
Potrebbe interessarti:
Segui la 78esima Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, dal 1 all’11 Settembre, con noi sull’hub: leganerd.com/venezia78