L’intervento delle autorità ha distrutto l’industria del mining di criptovalute in Cina. Alcuni miner si preparano a portare il loro business in Kazakistan o in Texas, mentre altri ancora hanno deciso di abbandonare il settore e svendere le mining rig.

«Molti miner hanno scelto di abbandonare il settore per obbedire alle leggi del Governo, le macchine per il mining si vendono al prezzo della ferraglia». Il prezzo di una macchina per il mining si aggirava sui 4.000 yuan ad aprile, oggi in Cina vengono svendute ad 800 yuan. Poco più di 100 euro.

L’esodo è iniziato dopo l’intervento delle autorità nella provincia di Sichuan, fino a poco tempo fa una delle più ambite per i miner di criptovalute cinesi. Ancora prima simili divieti erano stati imposti in Mongolia e in altre regioni della Cina.

La Cina da sola rappresentava tra il 65-75% del total hash rate della blockchain del Bitcoin.

“Se il Governo non lo consente più, devo semplicemente smettere”, spiega un ex insider del settore a Reuters. “In Cina non combatti il partito comunista, semplicemente non ci provi nemmeno”.

Secondo l’analista Adam James, di OKEx Insights, la Cina ha compromesso – o si prepara ad interrompere – il 90% delle operazioni di mining interne. L’impatto ha avuto un impatto devastante sull’intero settore e il prezzo dei BTC per la prima volta da diverso tempo è scivolato sotto i 30.000$ per poi recuperare. Oggi un BTC vale 33.511,40 dollari, ossia 28.034 euro.

A festeggiare, almeno in parte, sono gli operatori del mining fuori dalla Cina, che ora potranno ricevere ricompense maggiori. Bitmain, colosso del mining cinese, ora guarda con interesse ad altre realtà, a partire da USA, Canada, Australia, Russia, Kazakistan e Indonesia.