Iniziamo questa recensione di Un altro giro chiarendo qualche punto: è chiaro che per molti l’iniziale valore attrattivo verso il film sia quello della curiosità intorno al soggetto, poggiato su un esperimento in cui quattro amici cercano di sostenere un tasso alcolemico durante tutta la giornata lavorativa nel tentativo di superare determinate impasse e ritrovare un certo tipo di sicurezza, autostima e disinvoltura in campo sociale.

Tuttavia, sarebbe estremamente ingenuo ridurre l’intero film a questa dimensione diciamo ludica, perché se è vero che Un altro giro gioca su questo elemento per stimolare più di qualche risata anche grazie allo slapstick, è vero pure che il gioco/l’esperimento in sé è soprattutto un mezzo per scalfire temi molto ambiziosi di natura soprattutto esistenziale.

L’ultimo parto di Thomas Vinterberg – vincitore meritatissimo anche del premio al miglior film internazionale agli Oscar di quest’anno – non è un osannare la sbronza, come qualcuno potrebbe pensare, ma è più che altro un’ode alla vita, raggiunta e riscoperta anche grazie alla libertà e alla disinibizione garantita da un’arma a doppio taglio come l’alcol. È una esaltazione dell’accettazione della vita continuamente agrodolce e in qualche modo in tutto e per tutto un fortissimo e vigoroso contraltare allo stesso dramma personale di Vinterberg, che durante i primi giorni di riprese ha perso la figlia Ida, appena maggiorenne, a cui il film è dedicato.

Un altro giro segna anche la seconda collaborazione tra Mads Mikkelsen e il regista danese, dopo il bellissimo Il sospetto del 2012, che raccontava con una certa complessità e lucidità la discesa all’inferno di un insegnante sospettato (e accusato) dalla comunità di pedofilia, quando in verità totalmente innocente. Anche qui come allora Mikkelsen è perno intorno a cui ruotano temi e vicende, ma i comprimari assumono un ruolo più evidente e presente, anche perché qui è chiara l’intenzione di dare una certa importanza alle dinamiche che ruotano intorno all’amicizia più intima.

Fatta questa introduzione, prima di continuare con questa recensione di Un altro giro, vi ricordo che il film è arrivato finalmente nelle sale italiane, dopo essere stato presentato alla Festa del Cinema di Roma lo scorso anno (e dove ho avuto la prima occasione di vederlo).

La premessa di Un altro giro la ho già accennata, e vede Martin (Mads Mikkelsen) come un insegnante di storia in piena crisi di mezza età, annoiato dalla vita, inerte rispetto al quotidiano e disinteressato alla sua stessa attività di insegnamento. In questa sorta di capolinea esistenziale, in cui nulla succede e nulla lo coinvolge, Martin si vede affascinato da un’interessante teoria proposta a cena dall’amico Nikolaj (Magnus Millang), insegnante di psicologia al liceo di Martin, relativa all’idea (di Finn Skårderud) che gli esseri umani nascano con un tasso alcolemico troppo basso di circa 0,05.

Quello che parte semplicemente come un’idea suggestiva diventa grazie a Martin presto realtà, portando anche gli altri tre amici, Nikolaj, Tommy (Thomas Bo Larsen) e Peter (Lars Ranthe), ad imbarcarsi in una esperienza alcolica che segnerà per tutti e quattro un chiaro punto di rottura. Questo sia nel bene, che nel male; evitare di farsi scappare di mano l’esperimento potrebbe essere insomma più complesso del previsto.

Come dicevo in partenza di questa recensione di Un altro giro, non è però nemmeno lontanamente sensato ridurre tutto il film alla sua premessa. Questo in primis perché qui l’alcol è un mezzo per arrivare ad accettare gli alti e i bassi della vita, con pienezza e senza necessità di controllo, è un compagno che artificialmente rompe ogni rigidità della persona ed è un tramite attraverso cui riscoprire una naturalezza autentica, quella della gioventù, su cui per l’appunto si apre il film. È a questo proposito una sorta di dichiarazione di intenti il contrasto tra la frizzante apertura del film, sotto le note della splendida What A Life, e il rallentare immediato dettato dalle scene successive accentrate sull’indolenza di Martin (e dei suoi amici). Il film riesce insomma già nei suoi primi minuti a concentrare i suoi temi e l’intera direzione del racconto, che non a caso si chiude con la stessa canzone in una situazione simmetricamente opposta.

Un altro giro Martin

Intossicarsi con l’alcol è quindi in questo caso sinonimo di una profonda e consapevole catarsi, in cui prima grazie ad una maggiore disinvoltura, poi toccando il fondo e risalendo, ci si decostruisce e ci si denuda al punto da ritrovare sé stessi e il filo che ci ricollega ad una giovinezza e una spensieratezza ormai dimenticata. In questo percorso, nel caso di Martin nello specifico, personaggio più denso e protagonista, ritrovarsi e toccare il fondo vuol dire anche guardare in faccia una realtà che per inerzia non si aveva la forza di affrontare, trovando il coraggio di esporsi e addirittura distruggere, per poi cercare di ricostruire.

Quello che viene qui fatto filtrare attraverso l’alcol è un percorso quasi pirandelliano, in cui ad un’epifania qui dilatata nel tempo si lega a doppia mandata una scossa che spinge ad abbracciare l’esistenza, i suoi piccoli momenti e in particolare modo la sua imprevedibilità, superando la paura del fallimento e dell’osare, che poi alimenta l’immobilità.

Non tutto però è rose e fiori, e con l’alcol viene anche la necessità di innalzare il linguaggio per inquadrare l’argomento nella maniera più globale possibile, senza semplificarlo a panacea, ma inquadrandolo come l’arma a doppio taglio che è in realtà: un amico che ci aiuta nello svestirci delle costruzioni delle quotidiano, ma anche qualcosa che nel suo farci toccare il fondo è capace di impedirci di risalire.

Il pericolo (e la reificazione) dell’alcolismo sono elementi sempre ben presenti e messi a fuoco in Un altro giro, con il film che non si preoccupa però di inquadrare rigidamente la questione, in primis perché non ne ha bisogno, in secondo luogo perché l’intero film si poggia su una dimensione ambivalente della cosa. Una dimensione ambivalente con cui il film sfida anche il pregiudizio comune e dello spettatore, in particolar modo con una simpatica scena a tema storico e con un montaggio altrettanto divertente piazzato a circa metà film, in cui si susseguono filmati reali di persone di grande successo in evidente stato di alterazione alcolica (c’è per esempio questo celebre filmato di Juncker con Orbàn).

Riassumendo però, se vi stavate chiedendo se il film di Vinterberg mettesse in scena l’alcol in maniera incondizionatamente positiva, la risposta è ovviamente no, anche perché sarebbe ingenuo, quindi mettete giù i forconi.

Un altro giro

In tutto questo il film di Vinterberg intrattiene molto bene, complice pure un ritmo sostenuto grazie ad una scrittura molto asciutta e alla freschezza del soggetto che garantisce situazioni più o meno assurde e momenti slapstick (del nostro gruppo di amici ubriacone), capaci di strappare qualche risata e bilanciare il drammatico presente nel film.

Nel saliscendi di toni che si rispecchia nella regia, sono gli attori il perno centrale, quello attraverso cui scorre questa flessibilità, grazie ad un cast che nello specifico per quanto riguarda il gruppo di quattro amici risulta in sostanza impeccabile, con una lente speciale, per ruoli obiettivamente più complessi, a Thomas Bo Larsen e Mads Mikkelsen. Mikkelsen in particolare fa un grandissimo e sottile lavoro sull’espressività e sul non detto, rendendo anche solo con il volto la transizione attraverso i passaggi della sceneggiatura, dall’indolenza verso la vita alla rabbia, dalla gioia agrodolce quasi incontenibile all’esplosività di una totale accettazione della vita.

Totale accettazione della vita che si ritrova nel magnifico finale del film, dove appunto Mikkelsen è totale protagonista di una scena meravigliosa, danzando sotto What A Life, dapprima interrompendosi in una sorta di lotta con le sue resistenze (quelle che ci impediscono di abbandonarci alla spensieratezza e alla libertà) e infine cedendo alla piena estasi. Qui si vede tutto il passato del buon Mads come ballerino professionista, perché davvero dimostra una fluidità allucinante che arricchisce quegli ultimi minuti di un’energia tale da definire e racchiudere tutto il messaggio di Un altro giro.

 

Un altro giro vi attende al cinema dal 20 Maggio

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Un altro giro
Recensione di Simone Di Gregorio

Un altro giro è un inno all'osare e all'abbandonarsi alla vita e alla sua libertà, utilizzando l'alcol come mezzo per decostruirsi e ritrovare sé stessi e la propria naturalezza. La considerazione dell'alcol non passa tuttavia per ottiche sempliciotte, e si mantiene per tutto il film una visione ambivalente che sfida il pregiudizio ma sottolinea le criticità, senza però schierarsi. È un film meraviglioso, ritmato e spesso divertente, con una scena finale magnifica che contiene tutto il percorso di catarsi costruito lungo il film.