Alla Festa del Cinema di Roma abbiamo assistito ad un incontro con i fratelli D’Innocenzo, tra i registi più caldi dell’attuale cinema italiano e freschissimi del loro secondo film Favolacce.
É quasi impossibile se seguite molto il cinema e chi ne parla, che non abbiate sentito negli ultimi mesi il nome dei fratelli D’Innocenzo. Il loro secondo film, Favolacce (che segue l’esordio La terra dell’abbastanza), complice l’uscita on demand a cinema chiusi e complice un Orso d’argento a Berlino per la migliore sceneggiatura, ha goduto di una notevole esposizione mediatica, con merito, aggiungerei.
Favolacce è un film chiaramente molto personale per entrambi i registi e sceneggiatori, terribile nell’evitare qualsiasi tipo di filtro nella grande valvola di sfogo più o meno allegorica che rappresenta il film. Un racconto complesso e complesso da digerire, un finale che non dà soluzioni, scene difficili da guardare, un’attenzione maniacale nel rendere il senso di subdolo disagio, sconforto e disperazione che nella visione dei fratelli D’Innocenzo contagia chiunque in uno spicchio della periferia romana, persino i bambini, soprattutto i bambini, che sono il vero fulcro tematico del tutto.
Questo per dire che ha decisamente un senso recuperarlo se non lo avete ancora fatto, e qui sotto trovate la recensione della nostra Valentina. Ci sarà ovviamente qualche spoiler del film in questo pezzo, quindi magari prima guardatelo.
Detto questo, in occasione della serie di Incontri Ravvicinati, che si tiene ogni anno alla Festa del Cinema di Roma, abbiamo avuto occasione di vedere dal vivo una chiacchierata tra Alberto Crespi e i due registi, supportati, come da rito per il format, da clip specifiche per portare avanti il dibattito. Qui sotto trovate quindi la trascrizione – con qualche aggiustata – e il commento di parte dell’Incontro Ravvicinato con i fratelli D’Innocenzo, che da qui al futuro prossimo lavoreranno ad un terzo film (una “love story”, come la descrivono loro) e ad una serie poliziesca per Sky.
Favolacce come vera opera prima
L’impatto con i fratelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio, è particolare, perché l’impressione che si crea toglie subito la maschera del formalità e impone un contatto diretto con l’esperienza dei due registi e il loro vissuto. Si scusano per come sono vestiti e ci scherzano sopra, si dimostrano sempre schietti, cristallini e autoironici, mettono spesso e volentieri “in difficoltà” Crespi e parlano del più e del meno davvero come fossero in un gruppo di amici, addirittura indugiando in qualche delicato particolare della loro attuale vita privata. Per riassumere, il risultato è un incontro che dall’inizio alla fine tiene catturati e finisce per lasciare qualcosa, divertendo nel mentre grazie al carisma e alle belle risposte di due autori senza dubbio distinguibili.
Per aprire le danze, la prima domanda che gli pone Crespi riguarda il fatto che Favolacce sembri un’opera prima molto più di La Terra dell’abbastanza (che potete trovare su RaiPlay), per stile e per presenza della coppia di registi all’interno del film:
Risponde Fabio, spiegando la differenza tra le due opere e il motivo per cui forse sono stati fortunati nel portare avanti per primo Le terre dell’abbastanza:
Abbiamo concepito, abbiamo scritto Favolacce due anni prima di scrivere La terra dell’abbastanza, e se Favolacce aveva un approccio in qualche modo legato ad uno svuotatoio di quello che avevamo vissuto, con un approccio più rabbioso, La terra dell’abbastanza era più sereno, aveva già consumato quella rabbia che arriva subito e che è la prima risposta di solito alla vita. […] Favolacce è un film che ha delle licenze poetiche anche molto grandi, quindi lo stile andava un po’ cercato in quelle che erano le pieghe di una storia che era anche molto complicata da mettere in scena.
Poi il bello è che abbiamo preso tanti premi sul copione, ma il copione se tu leggi è tutto o niente, tantissimo era delegato alla messa in scena ed era tutto essenzialmente legato all’atmosfera.
Il lavoro maggiore è stato quindi quello di creare un’atmosfera che sintetizzasse la crasi tra l’ipnosi e lo stallo di queste province, di questo lasciarsi andare, che comunque è sempre un po’ rancoroso, perché pretende, non c’è questa grande maturità. Penso che siamo stati fortunati a fare prima La terra dell’abbastanza e poi Favolacce, perché Favolacce come primo film sarebbe stato secondo me un pasticcio, sempre che non lo sia di per sé.
Era un film molto molto complicato, però sai, quando ti butti… Noi non avevamo girato nemmeno un cortometraggio, […] non sapevamo chi fosse chi; il DOP (il direttore della fotografia, ndr), che sembra tipo il parmigiano, noi queste cose non le sapevamo, e tutt’ora ci capita di scoprire qualcosa, e vuol dire che non abbiamo ancora consumato tutto. A noi piace rimanere vergini, e ci approcciamo ad un terzo film con la stessa paura con la quale abbiamo realizzato i primi due, e questo vuol dire che siamo ancora vivi, anche se veramente dal look sembra di no.
Damiano completa poi il confronto tra i due film, nella visione di chi li ha partoriti:
Favolacce andava raccontato in una maniera a volte anche un po’ grossolana, scanzonata, in maiuscolo. La terra dell’abbastanza invece era un film tutto in minuscolo, su dei quadretti piccolissimi.
Due film a confronto, l’importanza della distanza e della pazienza
Proseguendo, sono state mostrate due clip, entrambe dai due film dei fratelli D’Innocenzo. Una da La terra dell’abbastanza, una da Favolacce, due scene catturate con una o due inquadrature fisse, in entrambi i casi larghe/larghissime e senza tagli dentro la scena (c’è solo un cut in quella di Favolacce da campo lungo a medio). Quella da Favolacce è la scena, forse una delle più importanti del film per capirne il significato, dove al piccolo Dennis va di traverso la carne, e la famiglia scoppia tutta a piangere, convertendo lo stress del personaggio di Elio Germano in uno scatto di rabbia. Quella da La terra dell’abbastanza invece vede l’omicidio del pugile poco prima del suicidio di Manolo.
La domanda quindi sta tutta nella distanza dai soggetti, dall’azione, perché la scelta di queste inquadrature così larghe e di questa visione così statica? Fabio D’Innocenzo commenta la cosa così:
Per me quella scena che abbiamo visto di Favolacce è estremamente divertente, mi ammazza dalla risate, i bambini che venivano girati, capovolti, sempre con quei cazzo di prosciutti crudi, che ti rimaneva il grasso in bocca. [Per noi] è stato veramente un trauma.
[Tornando alla domanda iniziale] Il nostro punto di partenza anche qui sono le sceneggiature; su La terra dell’abbastanza questa scena era l’ultima missione suicida dei due protagonisti, e noi sulla sceneggiatura mi ricordo che scrivemmo: “É tutto ripreso come se fosse un presepe”. E mi ricordo che i produttori non capivano, credevano ci dovesse essere il bambinello, non avevano capito assolutamente cosa significasse [per noi] il presepe. […] siamo in realtà delle formiche, che fanno anche delle cose assurde, e viste da lontano sono ancora più atroci. […]
L’epica del cinema crime fa sì che quello dovrebbe essere mostrato come un momento incredibilmente adrenalinico; per esempio [per quanto riguarda] la scena dello sparo, lo sparo visto dalla finestra, tu dovresti andare dentro, dovresti andare a studiare [la scena], dovresti creare la suspence, e invece non la senti, senti le cicale, vedi la città e vedi due bambini che giocano a nascondino tra di loro, a nascondino con la vita. Era l’unico modo per filmare quella scena, non abbiamo piazzato nessuna altra macchina.
[Riguardo l’altra clip] Questa doveva essere la scena di apertura di Favolacce, in realtà, e durava quattordici minuti, e già è lunghissima. […] La abbiamo accorciata e poi la abbiamo messa in un momento del film in cui delle scene avevano già tracciato un po’ uno stile, quindi questa doveva intervenire in un contesto narrativo che era già acceso. […]
Ricordo che abbiamo girato questa scena girando prima di tutto il primo master, con due camere in contemporanea (le due inquadrature larghe, ndr), e poi il piano di lavorazione voleva che andassimo sui primi piani, ma io e Damiano ci siamo guardati e ci siamo detti che la scena era già quella. Non volevamo arrivare al montaggio, in cui dai la possibilità di scegliere e i produttori dicono “No, dai, tagliamo ché c’è Elio Germano”.
Non volevamo arrivare lì, quindi abbiamo fatto solo quelle là (sempre le due inquadrature, ndr) per evitare di tagliare dentro. E questa è stata una piccola furberia che abbiamo fatto che ha accontentato il nostro gusto, che è un gusto anche sui tempi morti, come sul decesso dell’intrattenimento. Per me è un punto interessante, a riguardo di quello che veramente intrattiene. Io, spesso, essendo un grandissimo voyeur, mi metto a guardare dalla mia finestra la finestra degli altri, e ovviamente non puoi pretendere che accada tutto e subito, devi aspettare.
Damiano, sempre a riguardo della prima clip da La terra dell’abbastanza, parla invece della necessità di un po’ intransigenza tra le qualità di un regista:
Alla prima buona abbiamo detto: “Ok, fine”. Erano tutti felici perché faceva freddo, e non c’erano tanti soldi. Ecco, questo era anche un modo per essere un po’ intransigenti, cosa che secondo me è una dote che ogni regista dovrebbe avere. Poi ogni tanto può metterla da parte, ma la deve avere.
Il dolore e l’importanza di un volto
Si va oltre commentando altre due clip, una dalla fine di Favolacce, forse la scena in assoluto più tremenda in un film già di per sé inquietante e cupo, dove il personaggio di Elio Germano scopre il suicidio dei due figli, l’altra da La terra dell’abbastanza, subito successiva alla precedente, dove il personaggio di Matteo Olivetti assiste al suicidio dell’amico e scappa in macchina disperato.
Sono due scene, come sottolinea Crespi, in cui gli attori hanno dato moltissimo alla resa finale della visione dei fratelli D’Innocenzo, anche perché parliamo di momenti estremamente emozionali in entrambi i film.
In questo frangente i due hanno anticipato che il loro prossimo film sarà una storia d’amore, mentre trovo molto interessante questo punto di vista sull’importanza di un’interpretazione/di un interprete e sulla capacità del regista di lasciare libertà all’attore specie nei frangenti più intensi:
Ad un certo punto del nostro lavoro, banalmente, ti devi fare da parte, devi far portare la scena a coloro che decidono le sorti del film, che sono gli attori. Le scene emotive non sono le più complicate da recitare, il problema non è mai il piangere, ma il modo in cui arrivi al pianto, l’esecuzione dei respiri che arrivano prima del pianto. E secondo me ci vuole anche da parte del regista un certo pudore nel non chiedere all’attore niente, rispetto a scene già alla lettura così importanti.
A Matteo Olivetti, Mirko ne La terra dell’abbastanza, abbiamo dato solo un’indicazione, quella di pensare a quello che ha pensato Andrea [Carpenzano], l’attore che ha interpretato Manolo (il ragazzo che si suicida, ndr). Mentre ad Elio [Germano] abbiamo detto: “Vai nella tua stanza, ti chiamiamo quando è tutto pronto”.
Spesso gli attori stanno lì, c’è questo momento di limbo, molto aeroportuale, in cui non c’è nulla da fare e ti deconcentri. Lo abbiamo parcheggiato nella stanza da solo, lo abbiamo totalmente trascurato in quella mezz’ora in cui abbiamo allestito il set. Lo abbiamo chiamato e non c’era più nulla da dirgli; anche qui, la semplicità di questo pensiero, per cui quando ti scegli bene gli attori ti devi affidare alla loro sensibilità.
I bambini sul set
Un’altra domanda molto curiosa posta da Crespi riguarda invece il modo in cui i fratelli D’Innocenzo hanno lavorato con i bambini, questione che sorge decisamente spontanea dopo aver visto Favolacce.
Provano quindi a spiegare in maniera simpatica il loro approccio (parafraso un attimo in qualche passaggio), specie per quello che preferiscono evitare:
Il fatto che ti appioppino la figura dell’acting coach non invoglia decisamente uno sceneggiatore a scrivere un film con un personaggio bambino. Figura tremenda eh, un intermediario, spesso di bella presenza, che va a rassicurare i genitori, i bambini, che gli fa imparare le battute a mo’ di filastrocche e cose scolastiche.
Noi ci siamo opposti fermamente a questa sorta di scambio igienico, non volevamo intermediari, non volevamo niente. Saremmo stati i genitori di Favolacce, con quel filtro, molto oliato, che instradava gli attori verso la tensione emotiva e le varie sfumature.
[…] Gli dicevamo giorno per giorno le scene che dovevano fare, senza filtri, ci siamo alzati al loro livello per parlargli. I bambini non sono per niente ingenui, è una cosa che noi adulti ci raccontiamo, ma in realtà ci hanno subito sgamato. Le bassezze che raccontavamo in maniera compunta nelle sceneggiatura, loro le avevano subito sgamate. I bambini sapevano che c’era del marcio in quel film, in quei genitori, in quegli adulti.
Penso che avere un filtro sarebbe stato un depotenziamento della figura del regista, e a quel punto “io che te pago a fa'”. Sappiamo forse far girare bene gli attori, questa è l’unica qualità che ci diamo in maniera più o meno oggettiva, il resto è tutto opinabile.
Due clip significative
Le ultime clip che abbiamo visto sono invece quelle scelte dai due fratelli D’Innocenzo al di fuori della loro (ancora ridotta) filmografia, due momenti che li hanno colpiti nel loro percorso da cinefili. Per la prima clip, Fabio ha scelto un film a caso, Taxi Driver, e nello specifico il primo “appuntamento” al bar tra Travis e Betsy, che a occhio e croce penso abbiate visto tutti.
Questo il commento di Fabio D’Innocenzo a questa scena cult:
Taxi Driver parla di un reduce del Vietnam che soffre di insonnia e quindi lavora come tassista, e la sua vita è ok, seppure lui viva molto male. Cosa lo trasforma in un uomo che progetta di andare ad uccidere un senatore? Un incontro con una donna.
Questa scena – e il film – è una profonda riflessione sul fatto che quello che influenza la mente non sono gli accadimenti o anche i traumi, sono gli incontri. Incontri che possono essere fortunati, possono essere sfortunati, ma quello che noi deleghiamo all’altra persona, in fatto di aspirazioni, di desideri, di necessità di connessione, può causare delle cose straordinarie come delle profonde tragedie.
Dopo aver confessato di essere andati pochissimo al cinema da bambini, per la situazione economica non semplicissima (i primi due film in sala furono Space Jam e Titanic), i due hanno rivelato che il film che più gli ha dato spinta propulsiva è stato The Outsiders di Coppola (da noi i Ragazzi della 56ª strada), visto talmente tante volte che oggi è quasi come se fosse un loro film.
Proseguendo, la seconda clip è invece la scena del caffè da Il posto, di Ermanno Olmi, che Damiano D’Innocenzo commenta così:
Ho scelto questa in risposta alla scrittura molto americana di Taxi Driver, e in entrambi [i momenti delle clip] abbiamo un uomo e una donna che simulano una parvenza di saper stare al mondo. Sono incontri tra quattro disadatti, chiaramente con dei retaggi diversi, anche con delle sensibilità estremamente diverse. Anche a livello di sceneggiatura, se Taxi Driver si reggeva sull’impalcatura di uno scrittore come [Paul] Schrader, qui non c’è niente, eppure accade di tutto, perché accade tutto quello che sta per accadere, e questo è un elemento molto importante per uno sceneggiatore. […]
[Rappresenta] Il cinema nostro, il cinema minuscolo, europeo, anche quella scrittura europea che io amo e prediligo a quella americana, forse anche alla perfezione americana che ogni tanto soffro un po’. […]
Vedendo questo film, mi riviene in mente Dogman (di Garrone, ndr) e la scelta dei volti; a volte quanto è semplice azzeccare un film? Azzecchi una faccia, due facce in questo caso, e poi il gioco fatto.
Volevo poi concludere con una piccola – e splendida – parentesi sui gusti cinematografici dei fratelli e su cosa li affascina nel cinema altrui. Tra i due fratelli D’Innocenzo, risponde Fabio, che parafraso in qualche passaggio:
Il cinema degli altri credo sia sempre una scoperta, per me è veramente assurdo vedere scritto “regista” sotto una foto di me o di Damiano, noi siamo spettatori, ancora adesso. Noi facciamo film per poterci pagare il biglietto e andare al cinema. Continua ad essere quello.
A noi i film hanno salvato la vita, in maniera totalizzante, nella maniera più bella, ricca, e proviamo a fare noi dei film perché sappiamo l’incidenza che possono avere sulle serate, sulle anime, sulle sensibilità delle persone.
Quindi diciamo che non abbiamo mai avuto un dislivello tra cinema alto e cinema basso. Per esempio, Van Damme è un grandissimo attore, e tutti i film che ha fatto Van Damme sono meravigliosi a loro modo. Stanley Kubrick, lo stesso. Non c’era, non vedevamo mai una divisione, una contrapposizione tra un tipo di cinema e un altro, erano solo esperienze. E spesso sostituivano la vita, spesso la chiarivano.