La recensione di Pieces of a woman, il dramma diretto Kornél Mundruczó incentrato sulla discesa e ascesa di una donna che perde completamente sé stessa fino a ritrovarsi un atto di perdono e accettazione. Il film più intimo e struggente del concorso di Venezia.
I legami sembrano essere il pezzo forte di questa Venezia 77. Legami spezzati, ritrovati. Storie di genitori e di figli. La pandemia, probabilmente, ci ha portato tutti a riflettere molto di più sull’intenso significato dei rapporti, sul valore della famiglia e dell’amore e sulla troppo poca importanza che, spesso e volentieri, siamo abituati a dargli, dando sempre fin troppo per scontato. La recensione di Pieces of a woman, un film che difficilmente vi lascerà indifferenti, vi mostrerà invece che nella vita nulla va dato per scontato e che, spesso e volentieri, l’imprevisto può arrivare come un fulmine a ciel sereno, spazzando via tutto quello che si ritrova sul suo cammino.
Ed è esattamente quello che accade alla vita di Martha (Vanessa Kirby) e Sean Carson (Shia LaBeouf), una coppia di Boston, in procinto di avere un bambino. Nonostante i piccoli e i grandi drammi della vita, le difficoltà economiche, la madre dispotica di Martha e il suo voler controllare l’intera vita della figlia, Martha e Sean vanno avanti come sempre, più forti di prima. Innamorati e in febbrile attesa della loro piccola ma, appunto, come dicevamo prima, il destino a volte può essere infame e beffardo.
Purtroppo il parto in casa non avviene come previsto
Purtroppo il parto in casa non avviene come previsto. A pagarne le spese di colpa è l’ostetrica, accusata di negligenza criminale. Da questo momento inizia per Martha una lunga odissea di un anno. Un viaggio sfibrante, struggente e doloroso, costellato dai continui sbalzi di umore di Sean e la loro relazione sempre più sul viale del rapporto; il rapporto difficile con la madre, ancora più apprensiva; una causa in tribunale che non vuole affrontare, un volto che non vuole rivedere, soprattutto ora che il caso è arrivato alle orecchie dei media scatenando l’indignazione pubblica contro l’ostetrica.
La storia di un figlio mai nato
Il dolore di Martha è sorto e solitario. È qualcosa che non vuole condividere e che la distrugge giorno dopo giorno. Il suo volto però è apatico, freddo, muto. Non traspare nulla dalla sua espressione, come se in fondo stesse davvero superando la cosa. La sua passività manda ai matti Sean, chi le sta intorno. Ma a Martha non importa. Nulla ha sapore. Nulla ha senso. Come si può davvero sopravvivere ad un dolore così grande? Si può davvero restare vivi? No. Forse non si può, almeno è questo quello che Martha pensa all’inizio del suo percorso, andando avanti con la sua vita, passo dopo passo, svuotata, sterile, priva di stimoli.
C’è solo una cosa che Martha ricerca spasmodicamente: l’odore di mela. E sarà proprio una mela, quello che da un seme può nascere, nonostante il vuoto iniziale, a dare speranza a Martha; la forza di rinascere, la forza di perdonare e di andare avanti.
Certo, non è così semplice. Il percorso è molto lungo e la parte più difficile spetta proprio alla donna, una straordinaria Vanessa Kirby dal volto gonfio di dolore che combatte con un corpo trasformato dalla gravidanza che si trascina dietro come un peso. Tutte le piccole conseguenze del post-partum, come le perdite di latte, i dolori, il fare nuovamente amicizia con un corpo che non sentiamo nostro, non fanno altro che sottolineare ancora di più la mancanza, la perdita della coppia.
L’esigenza del dolore
Pieces of a woman è un film che prende quasi alla sprovvista lo spettatore. Lo trascina nell’inferno di una donna che vediamo cadere a poco a poco, pezzo dopo pezzo. Una donna che decide di isolarsi, di rifiutare ogni input, di andare avanti come un automa, perdendo tutto quello a cui teneva di più, tutto quello che amava di più. Ci sentiamo quasi degli intrusi nella vita di Martha, in questo dolore sfrenato che non si potrebbe augurare a nessuno; eppure allo stesso tempo le siamo vicini, la comprendiamo, piangiamo silenziosamente con lei; urliamo in quella fitta solitudine auto-inflitta; in quella voragine che risucchia tutto e non lascia nulla.
Ciò che contraddistingue il film è, inoltre, questa atmosfera dolorosamente familiare. Non è una semplice rappresentazione di una tragedia che, purtroppo, come tante altre tragedie può capitare. Nella pellicola di Kornél Mundruczó, sceneggiata dalla moglie Kata Wéber, notiamo quelli che sono i tipici elementi del biografico, di quando qualcosa è stato toccato con mano, e ci è troppo vicino per non poterne parlare in un certo modo.
C’è una profondità nel discorso, un modo di parlare a chi ha affrontato quel dolore
C’è una profondità nel discorso, un modo di parlare a chi ha affrontato quel dolore. A chi è caduto in pezzi, frantumandosi come uno specchio, incapace di ricostruirsi, proprio come Martha. La non accettazione di quel dolore che deve restare qualcosa di assolutamente personale, è tale da portare la donna a non voler neanche seppellire il corpicino. No, sarebbe ammettere in modo definitivo ciò che è davvero successo. Martha trova scuse per rifugiarsi dalla disperazione, venendo divorata a poco a poco da se stessa.
E questa rappresentazione deriva proprio dal vissuto della coppia di regista e sceneggiatrice, i quali metto al servizio del pubblico una storia reale. Una storia dalla quale sono passati anche loro. La storia di un figlio nato e la cura dal dolore attraverso l’arte, attraverso il cinema, nella speranza di essere un’ispirazione per chi incapace di accettare un dolore così intenso. Una sofferenza così grande e sfibrante.
L’importanza di imparare a vivere nel dolore
Si può imparare a convivere con il dolore, è questo che Pieces of a Woman ci porta a fare assieme alla bravissima Vanessa Kirby. Non è facile per una donna scivolare in un ruolo così intimo e profondo. Non è la storia di una morte, ma la storia di una rinascita; perché, in fondo, dopo la tempesta ci sarà sempre il sole. Dopo l’inverno e i campi secchi, arriverà sempre il momento della primavera, dei frutti che inizieranno a sbocciare per poi essere raccolti.
Il film in questione è esattamente questo e porta a riflettere non solo sulla sfera più privata di una donna, ma anche nelle sue relazioni con gli altri.
Per esempio, con il compagno Sean, uno straordinario Shia LaBeouf in uno dei suoi ruoli migliori e più sentiti. L’alchimia fra i due attori è tale che sembrano un tutt’uno con lo schermo.
Reali, verosimili. Intensi. Kornél Mundruczó costruisce un piano sequenza iniziale con il travaglio casalingo di Martha in maniera eccelsa e straordinaria. Raramente il parto viene mostrato al cinema nel suo aspetto più nudo e crudo. In quello che accade davvero ad una donna. Nei piccoli momenti di disagio. In quelli grandissimi di dolore.
Gioia. Stanchezza. Paura.
Gioia. Stanchezza. Paura. E l’amore tra i due protagonisti è tale da rendere questo momento, apparentemente violento ma contrapposto al significato di vita più puro, ancora più intenso. Sembra quasi che facciano l’amore nel loro abbracciarsi, stringersi, prepararsi a questa nascita. Aspettare. Piangere. Ridere. Soffrire. Morire. E poi… rinascere.
Trovare una risoluzione a se stesse, al proprio vivere, alla propria identità imparando anche a perdonare, soprattutto lì dove la colpa è solo un riflesso della non accettazione.
In conclusione della recensione di Pieces of a Woman, possiamo dire di trovarci di fronte a uno dei film più belli di questo concorso che, ancora una volta, si conferma voler intraprendere la via della sofferenza, del dolore, e degli aspetti negativi della vita. Ma al tempo stesso, vuole dare anche un segno di speranza. Vuole raccontare storia di dolore e di rinascita, sottolineando che nella vita succede, nella vita può capitare anche questo. Nella vita si soffre e quel dolore sarà costantemente parte di noi. Eppure la vita continua e, a volte, imparare a soffrire può essere la chiave per ritornare a vivere.