Per non rovinare i rapporti con i poteri forti dell’India, Facebook ha passato mesi a ignorare i post antimusulmani del Governo.

Una recente indagine del Wall Street Journal rivela come l’azienda statunitense abbia consapevolmente deciso di non applicare la sua policy contro l’hate speech al partito attualmente al governo, il Bharatiya Janata Party (BJP), e ad altri gruppi nazionalisti induisti.

Le testimonianze raccolte riferiscono infatti come, già a partire da marzo, i moderatori del social abbiano segnalato post tanto compromettenti da giustificare la sospensione, se non la cancellazione, del profilo di Tiger Raja Singh, legislatore BJP dello stato del Telangana.

Il responsabile nazionale delle politiche pubbliche aziendali, Ankhi Das, si è opposto all’applicazione delle norme contro l’hate speech nei confronti di Singh e di almeno altri tre individui e gruppi nazionalisti induisti segnalati internamente per aver promosso o aver partecipato ad atti di violenza,

riportano alcuni dipendenti di Facebook.

Nei suoi post, Singh chiedeva che i rifugiati Rohingya, prevalentemente musulmani, venissero fucilati, nonché etichettava i musulmani indiani come traditori della patria e promuoveva la distruzione delle moschee.

Nel report vengono nominati anche altri due membri del BJP, i quali si sarebbero macchiati di esternazioni altrettanto preoccupanti: Anantkumar Hegde e Kapil Mishra, rispettivamente un membro del parlamento e un ex-legislatore.

 

Indiani musulmani

 

 

Il primo si è fatto promotore di una campagna d’odio in cui i musulmani venivano accusati di aver dato il via a una “Corona Jihad“, ovvero di essere degli untori della pandemia, mentre il secondo ha pubblicato a dicembre un video in cui incitava la polizia a sopprimere con la forza le voci di coloro che manifestavano contro una controversa legge sulla cittadinanza.

Das, il cui lavoro include il fare lobby a nome di Facebook nei confronti del Governo indiano, ha detto ai membri dello staff che punire le violazioni perpetrate dai membri del partito del [Primo Ministro] Modi avrebbe danneggiato le prospettive di business dell’azienda,

riporta l’articolo.

Visto che durante l’indagine giornalistica le domande del Wall Street Journal si sono fatte pressanti, l’azienda di Mark Zuckerberg ha preferito rimuovere alcuni dei post incriminati, ma la Big Tech si è nondimeno trovata ad ammettere attraverso il portavoce Andy Stone che la sede centrale era ben consapevole della direzione intrapresa da Ankhi Das.

Il caso dell’India evidenza come Facebook, in barba a tutte le promesse etiche e morali, sia pronta a piegare le policy contro l’hate speech pur di favorire i suoi interessi finanziari.

Si tratta di un’atteggiamento che, pur essendo pienamente comprensibile, solleva non pochi dubbi sull’affidabilità di Mark Zuckerberg, CEO già finito nei guai con l’accusa di aver violato le norme antitrust di molteplici nazioni.

 

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