Su Amazon Prime Video è disponibile Homecoming, la nuova serie di Sam Esmail (già regista e sceneggiatore di Mr. Robot). Scoprite come ci è sembrata con la nostra recensione.
La cavalcata di Amazon Prime Video è decisamente iniziata, e non intende arrestarsi. Se anche altri attori stanno preparando l’artiglieria pesante per contrastare il semimonopolio di Netflix in ambito video on demand (nella fattispecie Disney e Apple), la società che si è prodigata fin da subito per creare una valida concorrenza è proprio quella di Bezos.
Dopo diverse serie originali di successo come The Man in the High Castle, American Gods, Electric Dreams o la più recente The Terror (di cui trovate di seguito la nostra recensione) è la volta di una nuova chicca davvero da non perdere: Homecoming.
Diretta da Sam Esmail, già regista e sceneggiatore della serie cult Mr. Robot, e con Julia Roberts come protagonista, Homecoming è disponibile già da dicembre su Prime Video in inglese con sottotitoli in italiano (da questo mese arriverà anche l’audio in italiano) e ci racconta una storia introspettiva, con tinte da thriller psicologico.
Homecoming è una serie atipica e sperimentale, composta da dieci episodi da meno di trenta minuti ciascuno, sceneggiati da Eli Horowitz e Micah Bloomberg, ovvero gli autori dell’omonimo podcast cui la serie si ispira. Il trarre ispirazione da un prodotto fondato sui concetti stessi di dialogo e comunicazione delinea anche un aspetto fondamentale per la serie.
Homecoming Transitional Support Centre è il nome di una struttura governativa segreta a Tampa, in Florida, dove è in corso un esperimento per aiutare giovani soldati di rientro dal fronte, affetti da stress-post traumatico, a reintegrarsi nella società. Julia Roberts è la dottoressa Heidi Bergman, psicologa incaricata di dialogare con i pazienti del centro per aiutarli a configurare la loro vita futura, superando i traumi del passato.
Dimenticatevi la Julia Roberts di Pretty Woman e Notting Hill, qui l’attrice riesce a dare un’interpretazione estremamente carismatica del suo personaggio ma allo stesso tempo low profile, come del resto lo è tutta la situazione ricamatale attorno, che punta fin da subito a creare nello spettatore un senso di straniamento.
La vicenda si concentra principalmente sulle sedute di terapia con il soldato Walter Cruz (Stephan James), con cui la Bergman crea un legame piuttosto intricato, che si prende diverse parentesi personali oscillando ambiguamente tra amicizia e infatuazione reciproca. Quella che ci viene presentata mentre queste vicende accadono, nel 2018, è una Heidi Bergman pragmatica e del tutto focalizzata sul lavoro anche nella sua sfera privata.
Quando torna a casa viene assillata continuamente dalle telefonate del suo supervisore, Colin Belfast (Bobby Cannavale), che scopriremo avere parecchi interessi occulti nella realizzazione del progetto Homecoming, che riusciamo ad intuire fin da subito avere qualcosa di sbagliato, non tanto per ciò che vediamo ma per ciò che non vediamo.
La serie è infatti giocata su uno sfasamento cronologico, e alterna i momenti di cui sopra a flash forward ambientati quattro anni più tardi, dove ritroviamo Heidi Bergman, che ci appare però una persona completamente diversa dalla psicologa dell’Homecoming. Ora fa la cameriera in una bettola sul mare, e pare essersi totalmente dimenticata dei fatti di quattro anni prima, quando un agente del Dipartimento della Difesa, Thomas Carrasco (Shea Whigham) la interroga per un’indagine sul progetto Homecoming, ormai chiuso.
Lo straniamento è qui ancor più accentuato perché lo spettatore non ha mezzi con cui capire se Heidi stia mentendo all’agente – e nel caso perché lo stia facendo – o se non si ricordi davvero nulla, e i colloqui con Walter Cruz fossero irrilevanti per lei, un po’ come gli altri che di certo sosteneva all’Homecoming Centre, ma che non ci vengono mai mostrati nelle sequenze ambientate nel 2018.
Questo straniamento e la suspense dovuti allo sdoppiamento cronologico sono accentuati anche dalla scelta di un diverso aspect ratio nelle immagini, che passa dal classico 16:9 a un soffocante 1:1 durante i flash forward.
Cos’è che è andato storto nei quattro anni che separano i due momenti in cui la storia si dipana? Che ne è stato del progetto Homecoming? E di Walter Cruz? Perché una donna tanto ambiziosa da dedicare la propria esistenza al lavoro è finita a fare la cameriera in uno squallido locale di periferia? Questi sono alcuni degli interrogativi che la serie pone fin dall’episodio pilota, cui se ne aggiungeranno altri tenendovi col fiato sospeso fino alla fine e costringedovi a guardarla tutta d’un fiato.
Homecoming è un dramma che si sviluppa lentamente, seppur in poco tempo, ma non è mai noioso grazie a una messa in scena di altissimo livello, sia in termini visivi che sonori.
Un soundtrack di stampo classico, con violini che spesso sovrastano le parole per restituire l’idea che in quel momento non è il dialogo la parte importante, a cui prestare attenzione, scandisce le riprese degli ampi spazi dell’Homecoming Centre, sempre molto geometrici e cromaticamente freddi e saturi, cui si alternano riprese dall’alto nei tragitti in automobile attraverso le ampie strade americane.
La regia di Esmail inquieta e affascina grazie alle zoomate lente e ai lunghissimi piani sequenza, e arriva in questa serie alle sperimentazione visiva più sfrenata che abbia mai osato con il cambio di aspect ratio tra le due fasi temporali. Curiosa anche la scelta del timing ridotto per una serie da dieci episodi (visto che siamo ormai abituati a puntate di quasi un’ora per questo tipo di prodotto televisivo).
Homecoming è senza ombra di dubbio una delle più belle serie tv del 2018, nonché, per chi vi scrive, la freccia migliore nell’attuale faretra di Amazon Prime Video. Grazie al fenomenale equilibrio tra messa in scena, scrittura, e recitazione – con una Julia Roberts che dimostra nel suo esordio televisivo di essere molto più versatile di quanto Hollywood non le abbia permesso in passato – ne consigliamo vivamente la visione a tutti.