Stoner è un libro di John Williams scritto nel 1965. Negli ultimi anni, grazie alla sua intrinseca bellezza, è ritornato ad essere amato e famoso nel mondo. La fama letteraria che gli compete è tipica delle opere che, elevandosi al di sopra della moda e degli stilemi dell’epoca in cui vengono concepite, giungono a descrivere un aspetto intimo dell’essere umano.
Individuando tematiche intrinseche dell’umanità in generale, un racconto come Stoner perde parte della sua dimensione temporale e giunge in un luogo destinato solo alle opere che meritano di venire riscoperte e riprese in mano, generazione dopo generazione, in quanto ci parlano in quanto uomini, e non in quanto abitanti semplicemente di un luogo o di un tempo.
Stoner è, in una certa misura, il racconto di una persona mediocre
Stoner è, in una certa misura, il racconto di una persona mediocre. William Stoner è un ragazzo che nasce e cresce in una povera famiglia di contadini del Missouri. Passa le sue giornate a lavorare i campi fino a quando, ad un certo punto, i suoi genitori decidono che forse è giusto mandarlo a studiare all’università del Missouri, nella facoltà di Agraria. Così, tanto per fargli fare qualcosa di più.
Già qui, si può comprendere un qualcosa. Stoner non è un predestinato. Non è un prescelto. In lui non vi è un fuoco sacro, un richiamo dell’arte o altre pinzillacchere da quattro soldi. Stoner è un ragazzo che, per dove è nato e per quello che è destinato, potrebbe anche non essere mai esistito. La sua vita è, fondamentalmente, ininfluente nel flusso più grande delle cose.
Lui non vuole esattamente andare a quell’università. Ma ci va lo stesso, perché cos’altro può fare?
Sennonché in mezzo a questo fluire apparentemente insignificante di cose, segue una lezione di letteratura inglese durante il suo primo anno. E in questa lezione, viene raccontato il sonetto 73 di Shakespeare.
E in quel momento si accende una sorta di passione in lui. Viene talmente scosso da questo pezzo di letteratura da decidere di cambiare completamente la sua carriera accademica, iscrivendosi a letteratura inglese e ricominciando da capo.
A quel punto farà carriera, fino a diventare professore.
Straordinario, direbbe qualcuno, considerati gli esordi. Ma fino ad un certo punto. La sua vita continua a non essere nulla, o poco più.
La sua carriera è al più mediocre. Nonostante la sua passione per la letteratura, più volte nel corso del libro ammetterà di non sentirsi un bravo professore e di non essere in grado di appassionare i ragazzi così come lui si appassionò in gioventù. È come osservare la fiamma di una candela risplendere nella stanza, ma essere incapaci di accenderci altre candele.
Durante la sua vita si innamorerà brevemente di una donna, Edith, e la sposerà. Subito dopo il matrimonio andrà a rotoli. Edith non sarà in grado di amarlo a sua volta, e la loro convivenza assieme diventerà, di fatto, inesistente ed insignificante. Pura formalità.
Avrà una figlia, che amerà alla pazzia. E tuttavia sarà incapace di proteggerla dal desiderio di rivalsa della moglie. Risvegliandosi dal suo torpore, Edith interagirà con lui solo per creare tensione nella vita della figlia, portandola a volersene andare così tanto da casa da farsi mettere incinta per farlo. Lo ammetterà allo stesso padre, amaramente, dicendo che in verità era troppo esperta perché potesse accadere per sbaglio.
Nella sua carriera universitaria gli capiterà di inimicarsi il collega sbagliato, Lomax. Questo, divenuto presidente del dipartimento, passerà il resto delle loro restanti vite a cercare di rendere il più infelice possibile il lavoro di Stoner. Gli assegnerà sempre le classi dei primi anni. Cosa inadatta ad un professore ormai con anni di esperienza che vorrebbe insegnare materie più avanzate, ed inoltre riempiendolo di compiti da correggere e quindi privandolo di tempo libero ed opportunità.
In tutto questo Stoner riuscirà ad innamorarsi di una sua studentessa, Katherine Driscoll, una giovane insegnante che segue un suo corso di dottorato. I due avranno una fugace e delicata storia d’amore, interrotta sempre dalle politiche universitarie e dall’influenza di Lomax.
L’esistenza di Stoner, qui riassunta inadeguatamente, è un susseguirsi di mediocrità e fallimenti. Ci si potrebbe quindi chiedere perché una storia del genere possa meritare di essere raccontata, se non per incupire le vite dei lettori.
Stoner è il perfetto esempio di come, con la giusta sensibilità, qualunque storia può essere raccontata, ed ascoltata, con profitto.
La voce narrante non porta mai un tono di scorno verso il protagonista, non lo deride mai, né lo fa oggetto di presa in giro o esempio negativo. Per tutta la durata delle duecento pagine circa, vi è una grande delicatezza. La vita di questa persona viene presa ed esposta con la cautela e il rispetto con cui ogni vita dovrebbe essere raccontata.
Ecco quindi come l’amore giovanile di Stoner per Edith e la succesiva trasformazione del suo matrimonio in una gabbia diventano simbolo delle delusioni di tutti noi che leggiamo. In esso vediamo il morire del nostro amore, il tradirsi delle nostre speranze, lo sfiorire della nostra giovinezza.
Nel rapporto con la figlia che viene rovinato sempre dalla moglie, vediamo gli elementi belli della nostra famiglia che nel corso degli anni si sono interrotti senza che noi capissimo perché.
Nel rapporto con i superiori vediamo la nostra battaglia quotidiana con un mondo fatto di persone che sembrano semplicemente meschine. Prive di amore, prive di compassione. Cariche solo di un orgoglio ed un odio che distrugge tutti e tutto ciò che di bello pensiamo di possedere e meritare nel susseguirsi dei giorni.
L’amore clandestino, che pure sembra per un po’ essere una sorta di risarcimento dato dal destino, viene distrutto con la stessa efficiente inesorabilità. Non perché i due amanti non si amino più, non perché insorga qualche difficoltà nel loro rapporto. Ma perché il susseguirsi degli eventi ha voluto così.
È la triste osservazione di come, se solo ci fossimo conosciuti in un altro luogo, in un altro momento, avremmo saputo creare una storia molto migliore di quella che il mondo ha deciso per noi. Stoner avrà solo due amici veri e propri per tutta la sua vita. Uno di loro, Masters, morirà durante la prima Guerra Mondiale in Francia. Di lui, Stoner ricorderà per tutta la vita la lezione riguardo l’università. Come essa sia il rifugio per persone come loro, in grado di coglierne la bellezza. Persone che non avrebbero nessun altro posto dove andare al di fuori di quelle mura e quelle aule.
Questa lezione Stoner la porterà con sé per tutta la vita. Poiché William Stoner è, comunque, un uomo che ha trovato il suo posto. Sebbene pieno di difficoltà, sebbene privo di amore e martoriato dal fallimento e dalla mediocrità, per tutta la vita Stoner saprà che quello è il suo posto.
La dolcezza con cui tratta chiunque, il senso di inevitabilità con cui affronta l’esistenza e ciò che gli capita, ne sono diretta conseguenza. Perfino in alcuni momenti in cui quasi non si riesce a capire la sua passività di fronte a certe ingustizie perpetrata da chi gli sta attorno, risulta evidente che la sua esistenza non potrebbe essere diversa da quella. Lui è così, e quello è il suo posto.
In tutta la sua vita, Stoner riuscirà a scrivere un solo libro. Questo libro lo reggerà in mano sul suo letto di morte, negli ultimi istanti di vita.
Questo libro è consunto dal tempo, quasi illeggibile. Come la vita di Stoner, è un libro inessenziale, dimenticabile. E mentre il professore lo regge tra le sue mani, osserva negli ultimi istanti della sua vita dei giovani camminare nel giardino fuori dalla finestra, tre ragazzi e tre ragazze, mentre tagliano per arrivare più velocemente a scuola. E, nell’osservarli, nota come essi passino sopra l’erba verda quasi senza lasciare traccia del loro cammino.
Il libro gli scivola a quel punto dalle mani. Stoner è morto.
In lui si può trovare quel momento, echeggiato in tutta la sua vita. Il passeggiare degli uomini sull’erba di un prato, che non lasciano alcuna traccia del loro passaggio se non per quei brevi istanti di esistenza. E in quegli istanti vi è vita, vi è risata, gioia. Ma vi è anche la fatica e il peso della realtà. E quando tutto è finito, è come se nessuno avesse camminato, come se nessuno avesse posato il piede su quel terreno.
La lezione di Stoner non è la lezione della buona notte. Si tratta della conclusione a cui giungono coloro che hanno vissuto la vita destinata non alle star o ai ricchi dell’alta società. È la lezione di chi consuma la sua esistenza cercando di meritare il proprio posto nel mondo, consapevole della futilità di fondo del battere del proprio cuore nello schema più grande delle cose.
Stoner è la rappresentazione della mediocrità, e la sua tenerezza è la tenerezza di chi ha imparato a combattere giorno dopo giorno con la vita. In lui non vi è rabbia e non vi è rimorso poiché essi non sono strumenti che possano davvero permettere di affrontare al meglio l’esistenza.
In lui possono rivedersi tutti coloro che, prima o dopo, hanno percepito di vivere una vita che non li sta portando in realtà da nessuna parte precisa. Tutti coloro che non sono stati predestinati, che non hanno vissuto nessuna grande tragedia ma nemmeno nessuna grande gioia. Coloro che hanno provato, e poi perduto, l’amore. Anche più di una volta.
In quest’ottica, si comprendere il perché il sonetto 73 abbia destato l’attenzione di Stoner. Tradotto, fa più o meno così:
In me tu vedi quel periodo dell’anno
quando nessuna, o poche foglie gialle resistono
su quei rami che treman contro il freddo
spogli archi in rovina dove, ameni, cantarono gli uccelli
In me vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto, svanisce ad ovest
e a poco poco, la notte se lo porta via
ombra di quella vita che tutto confina in pace
In me vedi l’indebolirsi di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù,
come un letto funebre ove spirerà
consumato da ciò che era il suo nutrimento.
Ciò vedi in me, e più forte diventa il tuo amore
ama ciò che dovrai presto lasciare.
Ed ecco che allora in qualche modo il cerchio si chiude, quando si comprende come il sonetto parli dell’amore per ciò che è caduco e che deve scomparire. E questa caducità ci accompagna per tutta la nostra esistenza.
Essa non si manifesta in un unico folgorante momento al termine delle nostre vite, quasi come se fossi stelle che esplodono. Bensì, ogni giorno noi vediamo consumarsi la nostra giovinezza e la nostra realtà, ogni giorno tramonta un po’ la nostra storia, senza che noi possiamo fare nulla.
E tuttavia, è proprio per ciò che muore che si può provare amore. Solo per ciò che sta morendo, e sempre di più man mano che si avvicina alla fine. Solo ciò che sta morendo ha prima vissuto, e solo ciò che ha vissuto può essere amato.
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