Los Angeles è morta. Una selva oscura è cresciuta attorno a quei grattacieli troppo alti, ne ha avvelenato l’aria soffocandone la vita. Manichini si aggirano per le strade senza una meta precisa e involucri di carne e plastica cercano di trovare il proprio posto in quella vetrina vuota che è la città degli angeli: demoni coi lustrini dalle ali mozzate.
Ma ecco che appare la vita, una vergine pura e autentica, bambina e donna, forma perfetta fattasi carne in un mondo di falsità e menzogne.
Lei sarà luce ma finirà ombra.
The Neon Demon non è un film convenzionale; ricco di simboli, sequenze surreali e scene indimenticabili per la carica provocatoria del suo regista, è un opera che necessità una maggiore attenzione da parte dei suoi fruitori. Sin dalla sua prima apparizione sul grande schermo alla 69ª edizione del Festival di Cannes, l’accoglienza da parte della critica fu discorde: chi lo elogiava come opera innovativa e irriverente e chi lo condannava a film di sole immagini, ricco nella composizione ma vuoto nei contenuti.
Senz’altro l’ultimo film di Nicolas Winding Refn conclude un discorso che il regista danese aveva già intrapreso nella sua filmografia, un discorso esistenziale i cui personaggi sono in perenne sospensione tra morte e vita e le cui emozioni sono annichilite e rese inutili manifestazioni verso il mondo esterno. Se con Drive aveva conseguito una maturità formale invidiabile e indiscussa è con quest’ultima opera che Refn raggiunge l’apoteosi del suo cinema, le cui immagini sofisticate e le suggestioni audiovisive si alternano in una composizione artistica che ricopre il film come un velo di Maya.
Con questo articolo andremo proprio a scandagliare in profondità il pensiero del regista, perché l’ultima fatica di Refn non è mero esercizio stilistico, come può forse trasparire ad una prima visione, bensì al di là dell’estetica rigorosa e sopra ogni perfezione, al di là della raffinatezza delle inquadrature e al di là delle musiche ipnotiche di Cliff Martinez, si cela un’opera profonda, ricca di simboli più o meno velati, con cui il regista decostruisce e ricostruisce un mondo a pezzi e indaga la verità attraverso l’allegoria.
Refn ha voluto dar forma ai suoi pensieri più intimi, alle sue paure più profonde, alle sue perversioni più folli, sintetizzando gli stilemi del suo cinema nella sua opera più ambiziosa.
Ma tralasciamo i giudizi e le opinioni, che non saranno oggetto di quest’analisi, a recensioni sicuramente più dettagliate e concentriamoci sulla simbologia e il significato che questo film intende veicolare, soffermandoci dapprima sui personaggi e sulla città che ne fa da sfondo per poi dedicarci al bellissimo finale.
La lonza, il leone e la lupa
La selva oscura citata a inizio articolo è un termine allegorico che meglio ci introduce nel mondo ricreato da Refn. Il microcosmo da lui costituito, a tratti distopico per le tematiche trattate e vuoto per la densità dei personaggi che lo popolano, è uno sguardo atroce gettato sul mondo in cui viviamo. Tutto è portato all’eccesso e alla provocazione, ma nasconde una verità intrinseca al suo interno che è bene estrapolare per poter comprendere il contenuto in funzione della forma.
Uno dei primi simboli/allegorie che irrompe violentemente in una scena durante la prima parte del film è un grosso felino che la protagonista trova nella camera di un motel da lei affittata durante la permanenza in quel di Los Angeles. A primo acchito pare non aver alcun significato, sembra un leone scappato da chissà quale zoo, ma proseguendo con la visione sono altri due gli animali posti in secondo piano che si intravedono con un occhio più attento: non vivi, ma imbalsamati.
Durante il soggiorno di Jesse, personaggio interpretato da Elle Fanning, nella casa signorile in cui è guardiana Ruby (Gena Malone) si scorgono un leopardo, o comunque un felino maculato, e nella sequenza controversa, che analizzeremo successivamente in cui Ruby eiacula conati di sangue, è un lupo a torreggiare sul suo corpo nudo durante un amplesso al chiaro di luna. Queste tre fiere non sono inquadrate a caso, sanciscono tre caratteristiche psicologiche ben precise che si riscontrano proprio nelle tre donne dal fascino glaciale che travieranno, molesteranno, squarteranno e divoreranno la nostra protagonista come un cerbero a tre teste.
Per analizzare questo personaggio unico e trino, andremo a scomodare un poema straordinario ritenuto uno delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi, nonché conosciuto e studiato in tutto il mondo: la “Divina Commedia”. Certo, può essere un accostamento azzardato e a tratti forzato, ma ci aiuterà a comprendere senz’altro l’impianto psicologico conferito ai personaggi del film.
Nel “Canto I” dell’Inferno, quando Dante si ritrova nell’ormai famosa selva oscura, allegoria di una perdita d’orientamento in una Firenze dilaniata dalle guerre civili, poco prima di intraprendere la catabasi nel “cieco mondo”, sono le tre fiere prima citate ad ostacolare il suo cammino: Il Leone che rappresenta la superbia più sfacciata; la Lonza, felino dal manto maculato allegoria della lussuria animalesca e la Lupa che si fa immagine orribile di avidità e cupidigia. Tre fiere, tre donne. Analizziamone una ad una:
Il Leone è Gigi (Bella Heathcote), la ragazza rifatta che fa sfoggio senza vergogna dell’uso massiccio di chirurgia plastica a cui s’è sottoposta, avendo sopportato dolori lancinanti per potersi trasformare in qualcosa di sempre nuovo e mai obsoleto, splendido e al tempo stesso terrificante. Lei mostra uno sguardo altezzoso, quasi di sfida verso la protagonista che pur sfoggiando una bellezza autentica sarà destinata al decadimento senile e alla marcescenza della carne. Immagine di superbia quindi, velata certamente di profonda rassegnazione verso il corpo umano.
La truccatrice Ruby rappresenta ovviamente la lussuria animalesca e incontrollata della Lonza, incapace di contenere la propria passione carnale verso un corpo attraente, sia esso vivo o sia esso morto. Scansata dalla protagonista in una scena di stupro incipiente, si getta successivamente su un cadavere nell’obitorio dove lavora, ne assapora la carne morta, la tocca come se non avesse mai potuto giacere con una donna prima di quel momento. L’amore saffico di prima diventa quindi necrofilia grottesca e il cadavere acconsente, perchè la morte non ti rifiuta.
Infine Sarah, l’unica vera vincitrice del film, è personificazione della Lupa. La bionda alta e magrissima, come magrissima e famelica era la lupa di Dante – la fiera di cui ha più paura quando si trova nella selva – è corrotta dal peccato dell’avidità. La bellezza è la sua essenza, deve averla lei e nessun’altra.
Non si ferma di fronte a nulla, il suo sguardo è assetato di sangue, le sue fauci aperte per saziare lo stomaco di carne fresca, le zanne pronte per cogliere ogni opportunità e dilaniare chi si frappone tra lei e il suo traguardo. Lei sarà infatti l’unica a primeggiare il quel mondo malato e ad ottenere la parte da modella. (Su questo però ci torneremo in seguito).
Sempre nel “Canto I” dell’Inferno, Dante introduce un quarto animale. Non una fiera come le altre, terribile o bestiale, portatrice di peccati che sommettono la ragione ai vizi, bensì l’animale domestico per eccellenza, un cane da caccia. Il veltro, termine usato nell’italiano medievale per indicare il levriero, è l’animale che per Dante rappresenta una sorta di salvezza per i mali del suo mondo, anche se il preciso significato è ancora discusso tra gli esegeti della Commedia e alcuni vedono addirittura nel Poeta l’opera risanante del suddetto. Virgilio, suo mentore e guida, né preannuncia la venuta in quella selva oscura, affinché dilani la Lupa e la faccia morire con molta sofferenza.
È ovviamente un quadro allegorico che suggerisce una sorta di lieto fine promesso da quel Dio che per il Sommo Poeta è l’unica giustizia vivente. Ma in The Neon Demon non esiste nessun Dio, non esiste nessuna giustizia, non esiste nessuno lieto fine. Ecco quindi che ci ricolleghiamo al discorso iniziato poche righe prima sull’importanza dei simboli e su ciò che celano sotto i lustrini della forma, perché il veltro della profezia è giunto nella Los Angeles di Refn sotto le spoglie di una donna bambina. Una bionda vergine di rara bellezza.
Jesse, la modella protagonista, è l’animale docile, ingenuo, estraneo al mondo un cui si trasferisce, quasi provenisse da una città ormai dimenticata, di cui non si fa menzione. Lei è perfetta, è una dea scesa in terra che scardina ogni certezza; prorompe in quella realtà fatta di manichini come “diamante in un mare di vetro” e d’un tratto il velame che la rassegnazione aveva posto sugli occhi di tutti, si squarcia mostrando la verità.
Esplicativa la scena in cui il famoso stilista, interpretato da Alessandro Nivola, è rassegnato e ha il capo chino sul suo banco durante una selezione per modelle, ma è nel momento in cui Jesse gli si para davanti con tutto il suo bellissimo corpo di fanciulla che si rende conto della vita che prorompe in mezzo a cadaveri in movimento, insulsi e tutti uguali; o, ancora, la scena di incredibile impatto emotivo in cui il fotografo amico di Ruby la cosparge d’oro in tutta la sua intimità e il mondo pare chiudersi su di loro come se non esistesse nessun altro.
Non serve guardare altrove, è lei ciò che tutti cercavano da tempo, ciò di cui quel mondo aveva bisogno, ma che non meritava. La fanciulla verrà infatti inevitabilmente inghiottita nel nichilismo della Los Angeles decadente di Refn. Le sue luci, i suoi colori così innaturali e i suoi vuoti incolmabili saranno teatro della morte della speranza. Una speranza di cui Jesse era inconsapevolmente portatrice.
Come vedremo nelle sezioni successive, sarà infatti il veltro ad essere sbranato e dilaniato letteralmente dalle tre bestie scarne e fameliche che si celano nel fetore nauseabondo della morte e non il contrario, perché The Neon Demon, lo sottolineiamo nuovamente, è un continuo crogiolarsi nell’insensatezza della vita e nel vuoto eccitante della morte.
Los Angeles – La “Dite” di Refn
Concluso l’excursus sui personaggi principali del film, ci addentriamo ora nelle profondità dello stesso e nello svolgimento della trama, perché ulteriori simboli e ulteriori vicende permeano The Neon Demon con grande efficacia narrativa.
Innanzitutto è bene soffermarci sulla forma, o meglio la superficie, l’ambiente e il fine che muove i manichini di Refn nel suo teatro dell’orrido.
Tutto si svolge in una Los Angeles insana, edonista e affascinante nella sua diabolica struttura con gli alti grattacieli concentrati al suo interno, proprio come la dantesca Dite, città infernale di angeli decaduti e cinta da torri vermiglie, nel cui entroterra è confinato “l’mperador del doloroso regno”, il demone a tre teste che un tempo fu assai meraviglioso nell’aspetto (i motivi di incontro tra l’Inferno dantesco e The Neon Demon si esauriscono difficilmente).
Una metropoli scelta non a caso quindi, che il regista danese ci restituisce con una splendida fotografia dai colori eccessivamente saturi, con i blu, i rossi, i viola e patinata come fosse fard sulle guance di una donna. Un espediente cromatico di straordinario vigore che mostra – non senza destare straniamento nello spettatore – il microcosmo tutto femmineo e decadente della città degli angeli, perché nella Los Angeles di Refn ciò che più conta in assoluto è l’immagine, l’apparenza, “sembrare più che essere” e tutti i suoi cittadini agiscono in funzione dell’unica cosa che li differenzia da semplici cadaveri nudi e marcescenti, l’unica cosa che conta: la bellezza.
L’estetismo soffocante, che si riscontra anche nella messa in scena con composizioni d’immagine dai virtuosismi impressionanti, è quindi il punto focale dell’intero film e su cui si incentra la distopia del regista, la stessa “cultura della forma” che D’Annunzio esplicò ampiamente nel suo capolavoro “Il Piacere” del 1889.
Los Angeles è un simulacro vero e proprio in cui non sembra esistere nient’altro di importante al di fuori della forma, ed è così che abbiamo modelle, fotografi, stilisti, truccatori, tutti assuefatti da quella bellezza intesa come categoria sovra-umana e in competizione per primeggiare e rendersi visibili, con qualsiasi mezzo, in quella vetrina che è la vita, davanti cui però nessuno pare soffermarsi.
La chirurgia plastica, i lustrini, i gioielli scintillanti che mascherano l’anonimato, i finti apprezzamenti; tutto è menzogna e falsità in The Neon Demon e i suoi personaggi frustrati e afflitti perseguono questa “pseudo religione del bello”, aspettando morenti la venuta di un salvatore, un messia che gli possa redimere e mostrare la vera bellezza autentica, la vera ed unica verità: Jesse appunto.
Passano alcuni giorni dall’arrivo prorompente della protagonista. La città è in visibilio, è eccitata, le tre fiere ne fiutano la carne fresca come squali attirati dal sangue, le stanno appiccicate prima con fare sprezzante, poi con profonda invidia. Subito dopo il casting per modelle (sequenza già accennata nel precedente paragrafo) inizia per Jesse un periodo di profondo cambiamento e la prima passerella sul palco del mondo diventa un rito di iniziazione vero e proprio. Un rito che la trasformerà per sempre in ciò che lei doveva epurare, plagiata dalle stesse tre bestie che lei doveva cacciare.
Ed ecco che le luci si spengono, tutto diventa buio ed oscuro, come oscuro pare ciò a cui stiamo per assistere. Jesse appare statuaria in un abito etereo di un nero corvino che ne fa acquisire una bellezza sconfinata, surreale; dietro di lei si erge una forma piramidale contornata di blu elettrico, unica lieve fonte di luce che al neon rischiara il suo viso.
Da tempo immemore il triangolo è simbolo di virilità, del fallo maschile e lei lo lecca, né assaggia la superficie osservandosi sulle molteplici rifrazioni del vetro piramidale, come se solo lei stessa fosse degna di farle provare piacere fisico.
Successivamente lo sguardo si protrae in avanti, è fiera e sicura di se come mai è stata prima e si avvicina con passo deciso al fondo dell’abisso, verso un ulteriore forma di neon blu, sempre piramidale ma rovesciata, con altri triangoli innestati al suo interno a formare una sorta di frattale perfettamente simmetrico (immagine che la perseguiterà poi in altre strane visioni).
Il demone del neon che ha corrotto la città plagiandone gli abitanti, è ora di fronte a lei e gigante e torreggiante sulla sua figura d’un tratto si tinge di rosso purpureo infondendo nuova luce nell’abisso profondo.
Il rito è concluso, lei è diventata donna e l’innocenza che la contraddistingueva è stata per sempre dimenticata e persa.
Los Angeles ha un nuovo manichino privo di vita, il manichino più splendido di tutta la vetrina.
La scena in questione è una delle più significative e contorte dell’intero film e sancisce una rottura irreparabile nella psicologia della protagonista. La bambina diventa donna, come suggerito dal colore rosso che riversa nella scena illuminando il triangolo rovesciato, forma sì del demone del titolo ma anche simbolo del sesso femminile (la loro correlazione è facilmente intuibile), e da quel momento in poi comincerà per lei un nuovo percorso che la porterà alla perdizione e alla morte.
Allontanerà dalla sua vita il ragazzo fotografo che per primo scoprì la sua figura, nonché suo unico baluardo che ancora l’assicurava ad una realtà più semplice e vera e lo spettatore ne rimane d’altronde spaesato. Il solo personaggio in cui era possibile immedesimarsi esce brutalmente di scena, perché capisce lui e campiamo anche noi che quel mondo di falsità e apparenze è in realtà ben radicato nelle nostre vite e nonostante lo si voglia negare ne facciamo anche noi inevitabilmente parte.
È in un ristorante, durante una discussione sull’importanza dell’immagine, che lo stilista lo incalza ad alzare i tacchi con una domanda emblematica: “Avresti mai notato Jesse non fosse così bella”? Una domanda che inevitabilmente ricade anche su noi spettatori.
Concludiamo così il secondo paragrafo e ci prepariamo ad affrontare l’ultima, intensa e grottesca parte del film: l’antropofagia.
Antropofagia – La morte della speranza
Promettiamo essere questa parte l’ultima sezione della nostra analisi poiché tratta della scena più chiara e suggestiva di The Neon Demon; sicuramente la scena più discussa, quella su cui poggia l’intero film e che inaspettatamente cambia l’intera storia.
Dopo esser scappata dal motel in cui soggiornava, spaventata da ciò che il guardiano sadico e violento (interpretato da Keanu Reeves) stava compiendo nella stanza a lei adiacente, Jesse si rifugia nella dimora in cui Ruby è guardiana insieme alle altre due sue fedeli compagne. Come anticipato qualche paragrafo prima, le tre donne ossessionate ed assuefatte dalla bellezza, fedeli adepte di quella “pseudo religione del bello” che è imperante nella città degli angeli, compiranno un gesto estremo e disumano per soffocare la loro dipendenza e nel contempo acquisire ciò che mai potrebbero avere: il corpo sublime ed autentico di Jesse.
Dopo averla rincorsa per tutta casa proprio come fiere assetate di morte, la feriscono, la tramortiscono e la gettano violentemente nel vuoto della piscina retrostante, lasciandola morente e scomposta in preda a spasmi terribili e lenti sussulti del tronco. Successivamente, in una scena dal fascino orrorifico, che Refn inquadra con mirabile perfezione artistica, notiamo il sangue di Jesse che lento cola dai corpi nudi e scarni di Sarah e Gigi, per confluire inesorabile verso il fondo della doccia in cui le due bionde si stanno lavando del peccato commesso.
Capiamo così e da alcuni altri piccoli dettagli che il corpo di Jesse dissanguato, dilaniato e sbranato è parte delle tre bestie in guisa di donna. Ne hanno divorato ogni singolo pezzo e sono ora sazie e si sentono ora più vive che mai.
L’intera sequenza è terribile, affascinante, notevole, ma al contempo profondamente eccitante e restituisce allo spettatore un senso di tremenda impotenza e di inevitabile rassegnazione.
Refn gioca col suo pubblico, lo induce inizialmente a credere in un lieto fine e lo disorienta infine mostrandogli la cruda realtà delle cose: colei che doveva e poteva sanare quel mondo, configurandosi come unico vero essere umano dalle fattezze divine, è ora cibo succulento per le tre fiere e come tale ne invigorisce l’animo, le rende più forti ma soprattutto più splendide.
L’antropofagia non è quindi fine a se stessa, non è un espediente visivo che il regista usa per stupire il suo pubblico come ha paventato qualcuno, ma pratica inevitabile di un mondo che ha perso ogni speranza e la cui degradazione morale ha dato spazio a creature imperfette che trovano nel contatto umano e nel piacere carnale – fino all’estremizzazione di cui sopra – l’unica fonte di nutrimento per la proprio inutile e insensata vita, se vita ancora là si può chiamare. Dopotutto altro non sono che cadaveri affamati di altri cadaveri.
Ma non è qui che lo sguardo cinico del regista danese conclude la propria analisi, perché di nuovo ci rende spettatori di un ultimo atto di straordinaria potenza visiva, mettendo in scena un’efficace legge del contrappasso dantesco, come pena uguale e contraria al loro folle gesto.
La bellezza più unica che rara di Jesse è un bene fin troppo prezioso, un dono divino che come tale non potrebbe e non dovrebbe stare nei corpi estranei e imperfetti delle tre donne, ma dovrebbe essere rigettato come organo trapiantato e malfunzionante.
Ecco che l’attenzione si sposta dapprima su Ruby, la Lonza, la donna viziata dalla lussuria sfrenata che si accinge a procurarsi un amplesso solitario in una stanza della residenza, mentre incurante sovrasta la notte stellata di Los Angeles. Dal sesso del suo corpo nudo la notiamo eiaculare una quantità spropositata di sangue denso e scuro, come mestruo incontrollato. La donna muore così dissanguata espellendo Jesse dall’organo sessuale che rappresentava la sua indole.
Successivamente, sono Gigi e Sarah a palesarsi per un ultima volta a noi spettatori durante un servizio fotografico in ora diurna.
Gigi (il Leone) fiera del proprio corpo di carne e plastica, inizia però a sentirsi male e conati di vomito irrompono dalle sue viscere provocandogli nausea e tremendo dolore. Dopo aver rigettato un occhio di Jesse ai piedi di Sarah, è costretta ad ammettere la propria debolezza e la superiorità della ragazza, e non riuscendo a contenere la forza sconvolgente del veltro e la bellezza di cui è portatore, si recide il ventre tra pianti terribili e grida di dolore, accasciandosi a terra morente sotto gli occhi indifferenti di Sarah.
La Lupa è lì di fronte a lei, la guarda delusa per non aver portato a termine ciò che si erano prefissate da tempo e da avida bestia famelica, corrotta dalla cupidigia, raccoglie l’occhio prima caduto e con la semplice morsa delle fauci lo ingurgita senza masticare. La creatura che avrebbe dovuto morire di atroci sofferenze per opera del veltro è invece l’unica a rimanere in vita, sempre avida di potere e affamata di gloria, la stessa gloria che le è stata negata per anni come le sue lacrime ci avevano suggerito quando fu rifiutata dallo stilista. Così, dopo aver detronizzato i suoi nemici, con passo deciso e senza proferire parola si incammina verso il suo sogno da modella, perché ora il veltro è dentro di lei, la bellezza è parte di lei e nessuno potrà più passarle davanti.
Mentre Sarah celebra solenne la sua vittoria, incalzano lievi le note di Waving Goodbye di Sia e il film si conclude aprendosi un’ultima volta in una landa desolata illuminata da un sole che si appresta a tramontare.
Conclusione
Abbiamo analizzato i personaggi principali, ci siamo fatti trasportare nel decadentismo della Los Angeles di Refn soffermandoci sugli aspetti generali, infine ci siamo dedicati al tema dell’antropofagia.
Ma non pensiamo, in assoluto, di avervi consegnato la verità nelle molte parole di questo articolo (di cui ci scusiamo per la lunghezza), confidiamo invece di avervi dato una chiave di lettura diversa e non convenzionale che vi possa far apprezzare maggiormente l’opera di Refn, che vi possa spingere a dargli una seconda possibilità qualora non l’aveste apprezzato ad una prima visione o più semplicemente che vi possa incuriosire quanto basta per iniziare una nuova indagine sui simboli e i messaggi lasciatici dal regista e costruire la vostra personale visione del film.
Dopotutto come disse un famoso filosofo tedesco “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.
Insomma, l’ultima fatica del regista danese è un’opera straordinaria, un film deflagrante che produce una narrazione importante sul nostro mondo, volutamente esagerata e a tratti impensabile, ma ricca di spunti e di idee visionarie che difficilmente rivedremo in una così rigorosa veste estetica.
Perché come uno specchio che riflette i nostri istinti più profondi, The Neon Demon ci mostra l’eterno sprofondare dell’essere umano nell’abisso di se stesso e come nuovi Narciso restiamo attoniti a fissarne la superficie rilucente, attratti da ciò che siamo, da ciò che eravamo e da ciò che sempre saremo: bestie sanguinarie mascherate dalla ragione.