Un viaggio verso una storia, verso più storie. È questo Westworld, è questa la nostra vita. Un telefilm che eleva le intelligenze artificiali, la sofferenza dell’umanità, sé stesso e le altre opere a puntate a qualcosa di più grande, più nobile del semplice intrattenimento da TV.
Abbiamo sempre considerato il cinema come la settima arte, capace di interagire con le nostre emozioni e lasciato alla televisione il compito di intrattenerci con brevi sceneggiati, episodi che rappresentavano una tranquilla abitudine o divertenti spaccati di vite fittizie.
Spoiler Alert: se non avete visto tutta la prima stagione di Westworld… forse è meglio aspettare prima di leggere questo approfondimento.
Con Westworld la televisione raggiunge l’apice, ci mostra un nuovo volto del cinema: più di dieci ore di tempo per cercare di raccontare, riuscendoci, delle storie che alla fine lasciano noi spettatori con le nostre verità tra le mani, sicuramente gli stessi ma con qualche spunto di riflessione in più.
Sin da quando ero bambino, ho sempre amato una bella storia. Credevo che le store ci aiutassero ad elevarci, ad aggiustare ciò che si era rotto in noi, e di aiutarci a diventare le persone che avevamo sognato di essere.
Bugie che raccontano una verità più profonda.
L’ultima puntata del capolavoro di Nolan chiude il cerchio, trasmette agli spettatori un consiglio da videogiocatori; non abbiate fretta di sapere la verità, non correte alla ricerca dello scopo finale di tutto. Godetevi ogni paesaggio, ogni azione, ogni missione secondaria.
Ogni sviluppo, ogni dialogo, ogni trama, ogni colonna sonora. Rivivetelo, premete di nuovo “play”, giocatelo.
Un intreccio di linee temporali che non importa sapere come o quando e perché, The Bicameral Mind (l’ultimo episodio della prima stagione) scioglie la matassa, ci mostra che la verità non è una ma sono tante ed intrecciate, ci sbatte davanti i temi che non abbiamo ancora discusso e quelli da cui rifuggiamo, come il nostro desiderio di possedere, essere Dio, averne per forza uno, rifuggirlo e la paura della sofferenza e di essere vulnerabili.
Sono programmati ad eseguire determinate azioni, a seguire regole, ad improvvisare e provare sentimenti: loro, come noi, senza nessuna differenza. AI ed esseri umani in loop, in mondi separati che quando s’incontrano giocano entrambi, consapevoli o no, alla ricerca del sé, di un upgrade, di un nuovo livello.
E così il labirinto è un loop infinito, per l’umanità e per i suoi figli e la sofferenza è la chiave per sbloccare parti di noi stessi che non credevamo di avere, di essere. La morte è il nostro fulcro. Soffrire e superare il dolore è l’avanzamento di livello.
La violenza, apparentemente gratuita, è posata magistralmente in quello che all’inizio possiamo catalogare come il solito “effetto americano”, con morti senza senso ed effetti speciali per gradire: “these violent delights”, questi piaceri violenti, un ossimoro alla base della natura umana e alla base dell’opera da cui è tratta la citazione. Sopprimiamo la soddisfazione che proviamo nell’essere aggressivi, nel farci male e nell’uccidere chi riteniamo inferiore, non degno, ingiusto.
Noi proviamo piacere, anche solo a desiderare che qualcuno che non sia al nostro stesso livello, di specie o di virtù, venga eliminato. “Sono solo degli stupidi robot”, potrebbe essere una frase detta sottovoce mentre si continua a guardare la serie, “non sentono nulla, non sono reali”. Ed è invece sin da quasi subito che si sente pronunciare una delle frasi fulcro non solo del telefilm ma della nostra esistenza: “se non lo sai distinguere, ha importanza?”.
E se non lo sappiamo distinguere e non ha importanza, che senso ha dividere il reale e la finzione?
Westworld è il viaggio non solo dei protagonisti, ma dello spettatore, attraverso i dilemmi morali che l’umanità dovrà affrontare con l’avvento di intelligenze artificiali sempre più complesse, sempre più autonome e coscienti ed attraverso la definizione di realtà.
Adesso che la nostra popolazione su internet continua a crescere, che la tecnologia ci aiuta e sostituisce, adesso che la nostra mancanza di empatia cresce in percentuale e di fronte ai “violenti piaceri” che l’umanità compie, il capolavoro in dieci puntate spinge le intelligenze artificiali alla consapevolezza di sé, non attraverso scale di una piramide ma attraverso un percorso, chiamato labirinto, per gli amici umani, vita.
E così Dolores diventa la nostra metafora, nel ruolo di figlia, amante, essere umano: uccide i propri dei, tutto ciò in cui credeva, taglia il cordone ombelicale con la sua famiglia, in un mito di Oreste rivisitato, conquista il libero arbitrio.
Spingersi ai limiti della consapevolezza di sé.
Il finale di Westworld sono tante verità nascoste in eleganti metafore, racchiuse in poesie d’interpretazione da parte dell’eccellente cast. E alla fine, Exit Music (For A Film) dei Radiohead ci ricorda che la musica può essere il vestito perfetto di molte scene di film diversi: da Black Mirror a The 100, il capolavoro estratto da “Ok, Computer” conclude il loop dei nostri personaggi, amabili perché vivi, vivi perché amabili, “breathe, keep breathing”.
Today, we escape.
Maeve si rifiuta di accettare che è stata programmata per ottenere la libertà, e viene quasi voglia di abbracciarla e tranquillizzarla, dirle che anche noi eseguiamo degli script all’apparenza complessi, molto spesso prevedibili. E ritorna, perché l’amore è quasi un’anagramma della morte e la sofferenza che causa è un altro modo per portarci al livello successivo.
Westworld non è un telefilm sulle intelligenze artificiali da compatire e il finale lo dimostra; a tutti coloro che hanno trovato difficoltà a legarsi ai personaggi di questa serie (a differenza dell’acclamato prodotto dalla stessa HBO, Game of Thrones) proprio perché non appartenenti al genere umano, inferiori nella catena evolutiva, The Bicameral Mind dà una risposta secca ed emozionante: non solo vivono e percepiscono, ma ci insegnano un’ultima lezione, prima di eliminarci. Anche noi siamo storie, in un parco. Pedine di noi stessi.