Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Da questo incipit nasce tutto lo stile unico su cui la pittrice Margaret Ulbrich Keane ha basato la propria carriera e su cui il regista Tim Burton costruisce la sua biografia cinematografica.
Quella della Ulbrich ci viene dipinta sin dal principio come una vita difficile, fatta di errori a cui si cerca di rimediare fuggendo. Peccato che i fantasmi del passato tornino sempre a bussare alle nostre porte e cercare di nascondere con la menzogna le proprie debolezze si rivela sempre un gioco sporco difficile da mantenere nel corso degli anni.
Margareth (Amy Adams) è una madre single per scelta visto che ha abbandonato il primo marito fuggendo con la figlia a San Francisco. Grazie all’appoggio dell’amica DeeAnn (una sempre più splendida Krysten Ritter) Meg trova lavoro come decoratrice presso un’azienda di mobili. Per cercare di racimolare qualche soldo in più Margareth fa anche la ritrattista per strada e nel contempo cerca di vendere le sue opere, quadri semicaricaturali che raffigurano bambini dagli occhi enormi.
È in questa occasione che viene notata da Walter Keane (Christoph Waltz) agente immobiliare col pallino per l’arte che sostenendo il talento della donna cerca di venderne le opere.
La lenta opera di plagio che Keane opera sulla protagonista ci viene mostrata attraverso una recitazione decisamente sopra le righe con cui Waltz non fa mistero della falsità del suo personaggio che dapprima si offe di sposare Margareth per toglierla da un impiccio legale e poi le ruba l’identità spacciando per proprie le opere della moglie che grazie ad un’intuizione per i tempi a dir poco geniale raggiungono un successo sopra ogni previsione.
Big Eyes sostanzialmente è una storia d’amore
Amore per un uomo, per una figlia ma soprattutto per l’arte.
Un sentimento per lo più inespresso a causa di un carattere complesso, remissivo frutto di continui abusi e schiacciamenti della personalità che Amy Adams riesce a trasmettere con le proprie espressioni e le sue movenze sempre delicate cui si contrappone il marito con la sua irruenza e sfacciataggine che in più di un’occasione sfocia volutamente nel grottesco.
Nulla da ridire sulla scelta degli altri comprimari fra cui spiccano, oltre alla Ritter, anche Danny Huston e Terence Stamp, ma vedendo la pellicola si ha proprio l’impressione che Burton abbia giocato moltissimo sulla duplicità caratteriale dei protagonisti incastrando attorno altri personaggi che fungono da contorno minimalista.
Il tocco unico del regista è costantemente celato dietro l’incredibile uso del colore, ma si vede benissimo anche nell’algido bianco e nero delle riprese televisive dell’epoca e nel sapiente uso delle luci cui Burton ci ha sempre abituato e con le quali gioca benissimo per dare risalto ad occhi e volti più che mai.
Il vero marchio di fabbrica si manifesta esplicitamente nel comparto musicale affidato ancora una volta a Danny Elfman e, visivamente, in un paio di occasioni, entrambe all’inizio della pellicola che sembrano quasi un’autocitazione o un omaggio ai fan più accaniti.
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Mi riferisco alla scena iniziale dove vediamo il dettaglio dei meccanismi della tipografia che ritmicamente stampano i manifesti della pittrice e nell’inquadratura successiva dove ci viene mostrato un quartiere molto simile a Burbank o al complesso residenziale dove è ambientato Edward Mani di Forbice da cui si fugge attraversando una collina (elemento sempre ricorrente in Burton che rappresenta il concetto di isolamento).
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Per il resto il regista pare essersi dedicato anima e cuore a descrivere gli stati d’animo della protagonista, pioniera della rivolta femminista a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 in cui l’arte “non è cosa per femmine” e in cui la separazione o il divorzio sono un ostacolo al trovare lavoro.
Margareth non si arrende mai, dopo il plagio e il sopruso arriva infatti la reazione che ci viene preannunciata da un momento in cui anche il regista esce fuori dal suo nascondiglio regalandoci dapprima un momento di visione onirica tutto suo e una seconda fuga in notturna le cui atmosfere sono tipicamente Burtoniane.
Big Eyes è un film che mi è piaciuto moltissimo, i 105 minuti in cui si dipana la trama scorrono in un attimo e non ho trovato nessun momento morto nella sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaszewski.
La vita di Meg scorre dinanzi gli occhi dello spettatore che assiste inerme ai soprusi che la donna accetta dapprima per amore e successivamente perchè ormai rivelare la truffa farebbe crollare tutto il castello di menzogne su cui si regge la sua ricchezza e conseguentemente la sua dipendenza dal marito.
L’unico momento di incertezza a mio parere si trova nel terzo atto del film, dove gli eventi si susseguono con un po’ troppa rapidità senza dare spiegazione a una soluzione che arriva tramite un’illuminazione religiosa.
Altro lieve momento di calo si avverte nella scena che vede protagonista un celebre industriale italiano dell’epoca e in cui è stato mantenuto l’audio della versione originale che non lascia dubbio sulla presenza di comparse italo-americane non particolarmente brillanti nella recitazione.
Burton non è nuovo alle biografie ma sebbene il suo precedente lavoro di genere dedicato al regista Ed Wood fosse intriso di tutto il suo stile e permeato da notevoli licenze d’artista, nel portare sullo schermo la vita della Ulbrich il regista ha cercato di rimanere il più possibile fedele alla realtà, in tutti i sensi.
La ricostruzione degli ambienti, dei costumi e dei caratteri è assolutamente affine al contesto storico in cui il film è ambientato, periodo molto caro al regista perchè affezionatissimo alle produzioni cinematografiche dell’epoca.
Le tinte pastello degli abiti che la onnipresente Colleen Atwood (costumista che segue il cineasta dai tempi di Edward Scissorhands e si è guadagnata l’oscar nel 2011 con Alice in Wonderland) si amalgamano perfettamente alle architetture sgargianti di Rich Hinrichs (con Burton già ai tempi del primo Frankenweenie) donando all’insieme la stessa solarità che si respirava in Big Fish e nonostante le piccole parentesi oniriche l’insieme è sempre molto credibile.
Probabilmente complice di questa scelta è la profonda amicizia che lega Burton alla protagonista del film, arzilla vecchietta ultrasettantenne di cui Burton, in epoca non sospetta, ha iniziato a collezionare i quadri perchè affini al suo stile.
E in effetti il cineasta di Burbank ha da sempre infarcito le sue pellicole con protagonisti dagli occhi enormi, che fossero creature animate come Jack Skellington o Victor Van Dort o attori capaci di bucare con lo sguardo il pesante make up o le maschere come Edward/Depp o lo stesso Batman/Keaton Burton pare sostenere da sempre il motto della Ulbrich.
Grazie a questa alchimia la fusione tra le opere e l’autrice è perfetta e i protagonisti del film sono gli occhi dipinti da Margareth cui viene dedicata l’ultima gioiosa inquadratura prima di dare spazio alla conclusione tipicamente biografica che un pellicola di questo genere, così ben diretta, deve necessariamente dare allo spettatore.