Non esiste onore senza una coscienza immacolata, bisogna essere belli, alti, svegli e sempre coraggiosi. In un certo senso, il mondo ti fotte.
Nella breve passeggiata che percorsi, buste in mano, mi persi ancora una volta nel mio diseguale fantasticare con l’innocenza di una mosca e la labirintica complessità di un ragno. Nelle foglie arancioni, nel passante ignaro, nei gas di scarico. Nell’ACI, nel mini-market, nel parcheggio: in tutti questi fumi di società non vedevo altro che morte, e la Signora dal sorriso di falce non aveva delle tette grandi come avevo sempre sognato. Anzi, si dimostrava quotidiana, semplice, dolorosa senza fracasso.
Sembrava una massaia stanca e tormentata, e poco più tardi l’avrei immaginata di domenica durante la messa, vestita di nero, sui 50 anni. Sbilenca, magra, con delle vistose occhiaie e un seno calante. O falce di seno calante.
Arrivato a casa non mi restavano che degli spiccioli e non facevo che ripetermi che“il tempo è denaro”; avevo infatti pochi attimi prima di procedere con l’operazione numero 6 (autoconvincermi di essere un uomo) una volta per tutte. Era arrivato il momento più difficile.
Il training autogeno e l’onanismo si compenetravano in modo perfetto ma quel giorno decisi di tenere le due cose separate, preferendo stranamente la prima. Avevo vinto una battaglia, non la guerra, ma fu così che mi misi d’impegno a pensare a me stesso come non capitava dall’adolescenza. A disposizione c’erano tre lunghe ore, minuti equosolidali, dilatazione del tempo; troppe domande tutte assieme, troppi rimpianti, troppi amori nati e morti nel giro di qualche sguardo.
Soprattutto troppe streghe, cattive consigliere delle mie pochissime, nevrotiche fate turchine. Lasciai perdere l’autopsicanalisi al terzo “frrr” del cellulare, tradendo il profeta che era in me mentre mi perdevo come una goccia di sangue in un luccichio d’inchiostro. Numero sconosciuto, risposi con la voce più solida del solito.
“Pronto?”
“L’hai aperto il plico?”
“Eh?”
“Il plico…la lettera, l’hai aperta?”
“Lo so cos’è un plico, cazzo. Ma chi parla?”
Silenzio. Poi:
“Tra 5 minuti, ingresso secondario del cimitero”
– click –
Mal di stomaco, istantaneo, puro e semplice. Chi diavolo era, cosa voleva quel tizio…uno scherzo, certamente…di che lettera blaterava poi…anzi plico…io ero un ragazzo tranquillo, non avevo mai fatto niente di male; ero stato eletto Mister Nessuno per 5 anni di liceo dalle arpie di turno.
Beh certo, prima di prendermi qualche discreta rivincita, ma questa è un’altra storia.
Pensai a cosa avevo fatto di illegale negli ultimi tempi, e che forse non avrei dovuto comprare quella bicicletta dal tossico, d’accordo, avevo alimentato il mercato nero delle bici bolognesi ed avevo strappato la fredda coperta della legge; ma era successo più di due mesi fa, non poteva averci molto a che fare con questa storia, e con questo dannato plico.
Dovevo prendere una decisione e la presi, riguadagnai terreno e grattai il fondo del coraggio che mi rimaneva, intascai le chiavi di casa e scesi di corsa le scale per controllare la cassetta delle lettere.
Poco prima mi era sembrato di notare qualcosa al suo interno ma con mio grande stupore ora la trovavo irrimediabilmente vuota; vuota come i miei occhi che riflettevano la realtà in cui vivevo, vuota come sarebbe stata presto la bottiglia di rosato. Tornai di sopra.
Era stato certamente uno scherzo di qualche sveltone, rimaneva però un punto poco chiaro. Chi mi aveva giocato quel tiro? Qualcuno senza dubbio abbastanza subdolo da usare tutti mezzi indiretti per arrivare fino a me: un telefono e una lettera, se mai era esistita, e un appuntamento al quale non si sarebbe mai presentato nessuno. Probabilmente un amico che voleva divertirsi un po’, lo stratagemma era attirarmi dove voleva per proseguire lo scherzo o testare il mio grado di vigliaccheria.
Non so cosa si smosse allora dentro di me ma decisi di andare al cimitero, di farmi trovare lì all’ora stabilita infrangendo gli schemi della mia vigliacca solitudine, estemporanea e fetale. Correndo sarei arrivato in tempo. Forse non ero così fifone come avevo sempre creduto. Per sicurezza mi portai dietro il cellulare lasciando a casa il portafogli e le chiavi; composi il 113 e stoppai sul nascere la chiamata. In quel modo in caso di problemi seri mi sarebbe bastato premere due volte il tasto di invio.
OK. Ero un fifone. Ma i ragazzi del Rotary e del Lions Club avrebbero fatto lo stesso.
Fiatone, mancanza di allenamento e kebab in fase digestiva tiravano dei gran calci agli stinchi della mia giovinezza passita. Cercavo di correre ancora per qualche decina di metri, non volevo cedere sotto lo sguardo di chi guidava sulla strada nazionale alla mia sinistra. La pista ciclabile era bagnata e nostalgica, ed un’aria umida di cipressi cresimati si spandeva attorno ai miei polmoni ossigenati, freddi e doloranti.
Arrivai al cancello posteriore del cimitero trascinando i piedi e la dignità, ero in ritardo di qualche minuto rispetto all’appuntamento con l’ignoto. Non c’era nessuno, come previsto; risi della mia ingenuità sorridendo con gli occhi e lasciandomi andare a considerazioni spicciole sulla madre del buontempone che aveva tentato di giocarmi.
Girai sui tacchi un po’ compiaciuto e un po’ antropologo; non c’era mai stata nessuna lettera, era tutto uno scherzo idiota di qualche imbecille perditempo. Al dietrofront seguirono pochi passi, presi in mano il cellulare e cancellai la lista delle ultime chiamate, 113 compreso. Rimisi in tasca il telefono appena in tempo per sentire uno “stump” seguito da un fortissimo dolore sulla nuca; caddi in avanti ad occhi chiusi e sbattei con grazia sul marciapiede freddo, severo e scostante.
Forse l’ultimo round era già arrivato e non me ne ero accorto; forse la mia imprudenza mi sarebbe costata cara e non avrei mai più dovuto preoccuparmi di comprare del detersivo per piatti. Arancione o verde che fosse. Forse era appena scoccata la mia ora. No, non potevo crederci; mi girai sul fianco destro e cercai con gli occhi l’avversario che mi aveva steso. E lo vidi. Vidi il suo viso rosso e le sue mani che sbattevano in un lampo ai lati del mio collo. Un’altra botta degna di un knock out, tentai ancora di rialzarmi ma le forze sgusciarono via gambizzate dal dolore e mi lasciai così andare di nuovo a terra, finalmente svenuto.
Aprii gli occhi. Ero in una specie di solarium tra e nuvole, una cosa di classe. Alla mia destra un lunghissimo divano bianco anni 70; stralunato e dolorante mi guardai attorno con gli occhi di un bambino che non ha avuto Big Jim per Natale.
Ehi, io non ce l’avevo mai avuto.
Davanti a me due signori di una certa età giocavano a carte senza bestemmiare, il che mi parve alquanto singolare e mi avvicinai. Bourbon, birra e vino rosso campeggiavano assieme ai sigari sul carrello accanto al loro tavolo da gioco, alla sinistra del cameriere.
“Scusate…” dissi senza nascondere il mio stato confusionale
“…credo di essermi perso, potrei sapere dove sono?”
Uno dei due mi guardò sorridendo, l’altro mandò giù del vino rosso ed eludendo il mio ragionevole quesito disse, alzandosi dalla sedia:
“Che razza di vino hai comprato per la cena, figliolo?”
“Uh? Ehhh…Montepulciano d’Abruzzo…più o meno…rosato…” risposi ancora più abbacinato di prima, maledicendomi per non aver mai seguito un corso da sommelier.
“Mai sentito. E’ carina almeno?”
“Bhe, è bionda. Ma lei come fa a sa…”
“Lascia stare. Ne succedono di cose strane al mondo. A proposito, sei in ritardo.”
“In ritardo per cosa?”
Il vecchio partì con una combinazione micidiale assestandomene due al corpo ed uno sul mento, di nuovo dolore e ancora il fiato in vacanza. Non ci stavo capendo davvero niente ed iniziavo a domandarmi se fossi impazzito o cosa, quando caddi di nuovo a terra come un salame piccante. Di quelli belli pesanti. Riaprii gli occhi mentre in lontananza una voce commentava
“Ehi Hank, non ci sarai andato troppo pesante con quel ragazzo?”
senza ottenere risposta.
Un misto di impotenza e novità mi pervase, proprio come quando vedevo belle ragazze in giro per strada. Una sensazione spiacevole, se consideriamo anche che in questa particolare situazione ero legato, al buio, da solo.
Tremavo. Chiamai aiuto.
Una figura nerboruta spalancò la porta ferendomi gli occhi con la luce elettrica dell’altra stanza; pensai fosse solo l’inizio di qualcosa di peggio e con il coraggio del condannato a morte ebbi l’audacia di domandare
“Dove mi trovo, e chi diavolo è lei?”
Manco a dirlo, il bestione venne a sciogliermi dai nodi e senza proferire parola mi invitò a seguirlo con un gesto. Attimi lunghissimi giocavano a nascondino con la lancetta, ero in un palazzo gigantesco con un tizio, muto, alto due metri; un mal di testa guizzante ed un silenzio da incubo facevano di quella circostanza un secondo esame di stato. Ma stavolta niente tesina, sarei dovuto andare a braccio.
Arrivammo ad una porta perfettamente uguale a tutte le altre quando senza preavviso il faccione rosso del gigante si disarticolò in una specie di ghigno di circostanza. Una mano grossa come una pala da neve si poggiò sulla mia schiena spingendomi delicatamente in avanti mentre un’altra mano apriva quella porta misteriosa senza che nessun rumore rovinasse l’incredula assurdità del momento.
Un vecchio sedeva dietro una scrivania antica, senza carte o alcolici. Memore del recente passato mi tenni a distanza di sicurezza e ripetei la domanda che avevo fatto poco prima al bestione.
“Dove mi trovo, e chi diavolo è lei?”
“Vorrei scusarmi per il trattamento cui è stato sottoposto. Paolo è un bravo ragazzo ma non bisogna mai dargli più di un ordine per volta, finisce per fare confusione” rispose il vecchio.
Quelle scuse inaspettate e quel tono vagamente piagnucoloso furono per me una piccola dose di taurina; ripresi vigore e feci per qualche attimo la parte dell’uomo duro.
“Paolo eh, che razza di nome per un armadio del genere. Così sentiamo, prima che io chiami la polizia. Lei gli ha detto di venirmi a prendere e di passare in tintoria, solo che il nostro piccolo lord è duro d’orecchi e ha combinato un casino, ah?”
Rise di gusto, e non era neanche una delle migliori. La parola “polizia” non lo scosse neanche un po’. Ero fregato.
“No, non esattamente. Ma cosa importa ora. Immagino che lei vorrà sapere dove siamo e perchè l’abbiamo cercata”
Poker face.
“Bene. Poniamo che per errore delle poste del suo paese lei riceva un pacchetto destinato a qualcun altro…”
“Suo” paese; eppure non mostrava il minimo accento straniero, se escludiamo il tono di voce duro e compassato. Nel mio cervello si accese una lucina, spegnendosi quasi subito.
Troppi caffè corretti.
“Poniamolo” dissi iniziando a far finta di capire.
“Bene. Ora immagini che qualcuno sia molto interessato a quel plico, qualcuno “in alto”, qualcuno disposto a tutto per riaverlo. Mi segue?”
“La seguo la seguo. Cosa contiene esattamente quel pacco?”
“Questo non è importante. Quello che conta è che lei, suo malgrado, è entrato a far parte di questo bel gioco. Abbiamo già perquisito la sua casa e la sua persona mentre non era cosciente. Ora deve dirci dove l’ha nascosto.”
Iniziai a capire sul serio. Punto primo, ero in guai grossi; punto terzo, chissà cos’avevano fatto ai miei coinquilini; punto quarto, come ne sarei uscito? Punto quinto: che razza di fine aveva fatto il punto secondo?
Non sapevo davvero dove fosse quella busta e provai la carta della verità. Mossa sbagliata, quasi sempre.
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