Tutti noi siamo stati ragazzi e abbiamo fatto ragazzate. Ognuno di noi almeno una volta nella vita ha sparato a un poliziotto, rubato il suo elmetto, fattoci la cacca dentro e speditolo alla vedova in lacrime.
E poi lo ha rubato di nuovo.
È normale, son cose che si fanno. /s
Però alcune persone si sono spinte ben più oltre di così, alcune persone hanno downloadato illegalmente materiale protetto da copyright.
Per i pochi che sono sopravvissuti all’FBI (se ve ne sono) non rimane che il biasimo della comunità delle persone oneste.
Quindi in questa nuova puntata de ma con sta roba non ci rimorchierai mai le ragazze il quarto d’ora di economia di dubbia utilità andremo a capire quanto esecranda è questa immorale azione.
Copyright e DRM
Bene ora che ci siamo scrollati di dosso i crawler della MPAA iniziamo a fare i seri. In questo post parleremo del rapporto tra fruizione gratuita di opere protette da copyright e economia.
Esistono diverse teorie contro i DRM:
- Sociali: i DRM non sono in grado di bloccare gli hacker o anche solo persone con un po’ di tempo libero, ma solo gli utenti comuni che, paradossalmente, sono i compratori onesti.
- Tecnologici: non esiste DRM invulnerabile per la stessa natura dell’oggetto che deve dare sia il messaggio criptato che la chiave al consumatore.
- Legislativi (regole sulla proprietà privata).
- Storici.
- Etc.
Ma oggi andremo a vedere i motivi meno divertenti, ossia quelli economici.
Iniziamo a introdurre alcuni concetti che ci torneranno utili.
Il primo è l’information economy, ossia l’economia dell’informazione.
Con economia dell’informazione si intende quel settore dell’economia dedito alla compra vendita di informazioni (tautologie FTW).
È un settore relativamente nuovo ed è un settore costruito “a tavolino” tramite una serie di regole e leggi volte a garantire la fruibilità di “opere di ingegno” (musica, letteratura, video, immagini, videogiochi etc.) solo a chi abbia pagato per acquistare tale bene (sotto svariate forme).
Veniamo intanto a un primo problema strutturale ossia la tipologia dei beni scambiati dall’economia dell’informazione.
I beni in oggetto (che chiameremo genericamente “informazioni”) hanno una serie di vantaggi che non possiedono i beni fisici.
Per loro stessa natura le informazioni non sono consumabili: voi che leggete questo articolo e le idee contenute in esso non lo state consumando ne, attraverso il vostro gesto, lo state rendendo meno fruibile a qualcun altro.
Se questo articolo fosse un panino invece lo divorereste e lo digerireste, in realtà proprio come per l’articolo scritto ma poi non lo dovreste… beh, avete capito (questa l’ho rubata a Perry Barlow ma lui è pro queste cose).
L’economia dell’informazione lavora producendo copie dell’informazione stessa, la moderna economia dell’informazione crea queste copie in tempi istantanei e le distribuisce in ogni parte del mondo in maniera rapidissima, senza costi di spedizione, problemi doganali, ritardi o quant’altro.
L’economia dell’informazione inoltre produce beni on demand, ossia non ha bisogno di pianificare la produzione in base alla domanda (sebbene abbia bisogno di prevedere la domanda per decidere se investire o meno), non ha bisogno di magazzini, la produzione è un just in time perfetto.
Tutti questi vantaggi vengono dalla natura del prodotto stesso, il prodotto può venir copiato, deve venir copiato per essere reso disponibile, deve poter cambiare formato per raggiungere utenti e mezzi diversi e deve poter venir maneggiato, tagliato, incollato, modificato perché il processo funzioni.
E qui entra in azione il secondo, importante concetto: il copyright e le DRM, il cui scopo è rendere disponibili queste operazioni solo al produttore del bene e non all’acquirente, sicché una parte dei diritti dell’utente siano sacrificati a fronte delle richieste del produttore.
Le DRM e i copyright servono principalmente a impedire a una parte terza di apportare qualsivoglia modifica sull’informazione, a usarla per altri scopi, a copiarla o a modificarla.
Economia Reale Vs.
Information Economy
Come abbiamo visto sopra l’information economy è il sogno bagnato di ogni ingegnere logistico, molto più di qualsiasi :nsfw: che @itomi potrà mai postare per farci riprendere da questo articolo.
Nessun magazzino, nessuna supply chain, nessuna programmazione della produzione, nessun lead time, nessun setup, il paradiso in pratica.
Ma il vero vantaggio che l’information economy ha sull’economia reale è questo: nessun costo variabile.
Piccola nota sulle tipologie di costo per chi è a digiuno di economia.
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Breve trattazione sui costi fissi e costi variabili (nota: la trattazione è volutamente semplice non ci interessano costi-semivariabili, costi ammortizzati nel tempo, costi scalari e altre cose simpatiche).
Quando si produce un bene ci si trova davanti a due tipologie di costi: i costi fissi e i costi variabili.
I costi fissi sono tutti quei costi che io devo pagare a prescindere dalla produzione del bene stesso o dalla quantità del bene prodotto (eg. stabilimenti, R&D, pubblicità, macchinari etc.).
I costi variabili invece sono quelli direttamente correlati alla produzione del bene e alla quantità prodotta (materie prime, energia, trasporto etc.).
Ad esempio se io produco scarpe, non importa se ne produco 10 o 100.000.000, il capannone industriale quello è e quello rimane, il suo costo non cambia, mentre la quantità di tela per fare le scarpe varia in base al numero di scarpe prodotte.
Esiste però una correlazione tra costi fissi e numero di oggetti prodotti, ossia se io pago il capannone 10.000 euri e ci faccio 10 scarpe, è ovvio che dovrò vendere quelle scarpe a cifre folli per guadagnarci, viceversa se io ne vendo 100.000.000 posso abbassarne di molto il prezzo.
Questo in economia si chiama saturazione della capacità produttiva, e, nel caso ve lo steste ancora chiedendo (o nel caso foste grillini), è una cosa buona.
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Questo è il suo potere più grande perché permette di inseguire la propensione alla spesa del consumatore in totale libertà, una libertà che è negata ai beni fisici.
Vendita, Acquisto e
Propensione alla Spesa
Bene facciamo un po’ i noiosi, come funziona la compravendita di beni?
Uno scambio (per l’economia) è composto di due parti: la decisione di scambiare e il perfezionamento dello scambio.
La seconda è chiara a tutti: avviene quando tiriamo fuori il portafoglio, o quando la banca ci chiama preoccupata per chiederci se deve davvero autorizzare tutti quei pagamenti verso Steam.
La prima parte invece avviene quando un compratore valuta il valore di utilizzo di un bene maggiore del suo valore di scambio e quando un venditore valuta il valore di scambio di un bene maggiore del suo valore di utilizzo.
In pratica se io credo che una cosa abbia un valore per me superiore al prezzo che chiedono la compro, se no picche.
Ad esempio se valuto che le 10 ore di gioco di Dishonored valgano per me più di 15 euri lo acquisto, se no ci compro altro o non ci compro un tubero.
Ma come facciamo a sapere quanto valga un oggetto per un compratore?
Questa, in realtà, è la parte più semplice: non lo sappiamo.
La propensione alla spesa di ciascuno di noi è diversa, influenzata da molteplici fattori, dal marketing, dalla concorrenza, dalla percezione, dagli interessi e dai bisogni.
Figuratevi che studiando economia si assiste a cose incredibili: gente che fa la fila fuori da un negozio per comprare un cellulare a 800 euri! :o
Come tutte le cose complesse si può semplificare in grossi sacconi di dati, benchè tali sacconi di dati abbiano tutti i problemi connessi alla previsione di comportamenti complessi sono il meglio che abbiamo (e che probabilmente avremo mai).
Le aziende quindi puntano a offrire un prezzo di solito basato sul loro costo di produzione più che sul reale valore che l’oggetto potrebbe strappare sul mercato, tenendosi però la possibilità di modificare tale prezzo (al ribasso) se risultasse conveniente.
Tale principio si basa appunto sull’inseguimento della propensione alla spesa delle diverse fasce di consumatori ed ha, come limite inferiore, i costi variabili.
Qui sotto un esempio per chiarire il concetto.
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Spieghiamoci meglio con un esempio.
Ipotizziamo due aziende: una produce GTA, l’altra produce lavatrici.
Ipotizziamo che entrambe le aziende vogliano produrre un nuovo prodotto (diciamo GTA V e una lavatrice) e che entrambe sostengano costi fissi pari a 1000 euri e che stimino una domanda di 50 utenti.
Ipotizziamo inoltre che per fare una lavatrice l’azienda spenda 20 euri, mentre per fare una copia di GTA V l’azienda spende quello che deve spendere nella realtà, ossia 0.
Entrambe le aziende vendono il loro prodotto 50 euri.
Entrambe le aziende guadagnano allegramente soddisfando la domanda prevista (quella di lavatrici guadagna un po’ meno, ma who cares? Sono lavatrici!).
Ecco che all’improvviso fa il suo ingresso nell’ufficio dell’ingegnere di produzione il responsabile del marketing con ancora indosso il suo grembiule di McDonald.
(Azienda GTA)
“Ingegnere! Le mie stime indicano che la fuori c’è un bunch of nerd in fotta per GTA V ma sono dei pezzaculari che usano Android, però se noi dimezzassimo il prezzo di vendita, potremmo vendere quattro volte tanto!”
“Bravo ragazzo, adesso fammi un panino e non ci mettere i sottoaceti”.
Guadagno pre = 50 * 50 – 1000 = 1500
Guadagno post = 25 * 200 – 1000 = 4000
(Azienda lavatrici)
“Ingegnere! Le mie stime indicano che la fuori ci sono un sacco di persone che vorrebbero avere una lavatrice anche in cucina, così da avere tutto il loro divertimento in una stanza sola! Se dimezzassimo il prezzo delle lavatrici potremmo venderne quattro volte tanto!”
“Ma se dimezziamo il prezzo delle lavatrici guadagneremo meno di quanto guadagniamo adesso! Sei un nabbo! Perché diavolo ti abbiamo assunto?”
“Non mi avete assunto, faccio parte delle quote aziendali per persone con lauree sfortunate, torno a fare panini!”
Guadagno pre = (50 – 20) * 50 – 1000 = 500
Guadagno post = (25 – 20) * 200 – 1000 = 0
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Quindi le aziende che commerciano nell’information economy hanno massima libertà nell’inseguire la domanda variabile legata alla propensione alla spesa proprio perché non hanno vincoli sui loro costi variabili, potrebbero vendere ogni oggetto a pochi centesimi e guadagnarci comunque se questo incrementasse notevolmente la loro base di acquirenti (qualcuno ha detto Humble Bundle?).
DRM e Information Economy
Veniamo ora al main theme: le DRM hanno un vantaggio economico?
Ipotizziamo due casi: il caso reale e un caso immaginario dove sia stata creata la DRM perfetta o dove la legislazione sia infallibile a punire chiunque usufruisca di beni protetti senza averne diritto.
Ipotizziamo che venga lanciato da Steam un nuovo gioco: GTA V.
Io sono l’utente medio.
La mia propensione alla spesa per i videogiochi è di norma il prezzo di due cocktail in piazza Vittorio: circa 8 euro (per i torinesi: parlo di due cocktail ai frighi), con questi 8 euri io ci pago le seguenti cose: lo sbattone di cercare il torrent, lo sbattone di cercare gli aggiornamenti, lo sbattone di settare Tunngle per il multiplayer, lo sbattone di cercare le patch per la lingua, il vantaggio di averlo al day one, il vantaggio di averlo in una libreria cloud disponibile ogni volta che cambio pc, e cose così.
Io (ma ognuno di voi avrà valori diversi) valuto tutto questo 8 euri, al di sotto di tale cifra compro il gioco su Steam, al di sopra lo torrento.
Nota per GTA V però sono disposto a spingermi fino a 15 euri per rispetto alla Rockstar, anche il rispetto si può comprare se uno crede.
Immagino che quando uscirà per PC costerà 49.99 come minimo, quindi supera la mia propensione alla spesa quindi sarò costretto a torrentarlo.
Ipotizziamo però che esista una DRM perfetta e io non sia in grado di torrentare il gioco, quindi, semplicemente non ci giocherò e andrò a ubriacarmi triste o comprerò un paio di Humble Bundle.
C’è differenza per la Rockstar?
No.
In entrambe i casi io non pago i 49.99 euri, quindi la perdita economica la Rockstar l’ha già avuta nel momento in cui il prezzo del suo bene ha superato la mia propensione alla spesa.
Dal momento che quei soldi tanto non li vede che interesse ha al fatto che io poi giochi o non giochi al suo gioco?
Tanto quei soldi non glieli avrei dati comunque, cosa cambia se poi io ci gioco lo stesso?
Alla Rockstar non cambia nulla, anzi, per lei è uno svantaggio economico.
Io non giocherò al suo gioco, non saprò mai come è, non conoscerò quanto sia brava la Rockstar a fare i giochi.
Magari comprerò un gioco concorrente e giocherò a quello.
Non andrò sui forum a dire “Raga GTA V scalcia i cooli e tira giù i nomi!”, non penserò alla Rockstar quando dovrò fare un regalo su Steam e via dicendo.
In parole povere non avrei conoscenza del prodotto, in parole ancora più povere la Rockstar sta perdendo pubblicità gratuita (e mi sta spingendo verso un altro prodotto).
Ovviamente la Rockstar è libera di mettere il prezzo che vuole, semplicemente sa che alcune fasce di consumatori non compreranno a quella cifra, lo ha già messo in conto quindi non ha una reale perdita legata al download illegale, quei soldi non li vedrebbe in ogni caso.
Il Packaging Informatico
I più attenti di voi avranno notato come nella lista dei motivi per cui pagare il gioco originale manca una cosa importante: il gioco stesso.
Infatti il gioco di per se ha valore 0, io lo posso sempre trovare gratuitamente da qualche parte.
A livello meno intuitivo il gioco non ha un valore proprio di 0, in quanto io spendo tempo per procurarmelo illegalmente (e si sa che il tempo è danaro), ma l’oggetto fisico GTA V può essere procurato con un valore monetario pari a 0.
Ora, è inutile nascondersi dietro al dito (o al legislatore) fingendo che il nostro prodotto possa valere più di 0, perché semplicemente non è così.
E non è così non tanto perché non ci siamo sbattuti e non ci sia impegno e spese dietro un progetto simile, ci sono, e hanno anche dei bei costi, ma semplicemente perché l’information economy non è la real economy e il fatto che chiunque possa fare copie del mio prodotto in maniera semplice e veloce è connaturato alla natura del prodotto.
Ricordiamoci che è la stessa natura che ci permette gli spettacolari vantaggi che abbiamo visto sopra, sono due facce della stessa medaglia.
Cercare di trattare con la stessa legislazione i beni fisici e le informazioni è una fesseria, perché sono due beni diversi.
Non esiste un sindacato dei trasportatori delle copie di GTA V fino al mio computer con cui devo contrattare, ma esiste la possibilità di copiare tale gioco in maniera gratuita.
Viceversa non esiste la possibilità di procurarsi un elmetto da poliziotto gratuitamente senza violare il diritto di proprietà, ma esistono i costi variabili per produrlo.
Mercati diversi per prodotti diversi che richiedono regole diverse.
Oggi chiunque di noi è in grado di procurarsi serie tv, film e musica gratuitamente, eppure esistono piattaforme come Spotify, Google Music, iTunes e compagnia bella che fanno profitti, esiste Netflix che fa profitti.
Tutte queste aziende non fatturano vendendo un prodotto (anche perché tali prodotti possono essere acquisiti a costo 0) vendono ciò che non possiamo comprare a costo 0: comodità di utilizzo, facilità di ricerca, velocità, spazio in cloud etc.
Noi paghiamo 10 euri a Spotify non per avere le canzoni che possiamo torrentare a blocchi di interi album a costo nullo, ma per tutto quello che ci sta intorno.
DRM e Autori
La domanda ora diventa: ma le DRM tutelano gli autori?
Incrementano i loro profitti?
Nel 2003 ci fu un dibattimento molto interessante in una corte degli USA, la sentenza Eldred vs Ashcroft (qui se siete avvocati oppure e gente triste e annoiata).
Durante il dibattimento la corte scoprì che il 98% dei lavori protetti da copyright non stavano più fruttando soldi a nessuno.
E che inoltre, indagare a chi appartenessero questi lavori con un certo grado di sicurezza costerebbe infinitamente di più di quanto si potrebbe ricavare da tutte queste opere.
In pratica un’opera decade molto, molto prima di quanto non faccia il suo copyright.
L’information economy ha, tra le sue caratteristiche, quella di essere un mercato orientato al modello TWTA, questo è legato alla perfetta replicabilità e distribuzione istantanea dei bene a costi nulli.
Ogni volta che esce un nuovo videogioco o una nuova canzone è molto probabile che non sia acquistata semplicemente perché nessuno se ne accorge.
Da questo punto di vista imporre blocchi alla libera circolazione dell’opera (aka DRM) è ancora più svantaggioso.
Tutti noi sappiamo quando esce il prossimo GTA ma nessuno sa quando uscirà il prossimo indie game molto figo.
Ed è estremamente più probabile che non lo compreremo perché non sappiamo nemmeno che esiste piuttosto che perché lo downloaddiamo gratis.
Se il mio indie game gira liberamente per la rete, anche in maniera illegale e viene conosciuto da 100 persone, magari una di quelle 100 mi pagherà il suo valore (o magari no).
Ma se nessuno sa che esiste allora sono certo che quei soldi non li vedrò mai.
È l’oblio, non la pirateria il vero danno per gli autori.
Conclusioni
Una cosa divertente sulla diatriba su copyright e DRM è la seguente: non esistono studi validi che affermino che la pirateria danneggi l’information economy.
Va detto, per completezza, che non esistono studi validi nemmeno per sostenere l’opposto.
Esistono però i dati di vendita e i precedenti storici e tutti e due ci dicono che le informazioni cambiano formato e cambiano forma di capitalizzazione ma continuano a produrre utili, sempre di più e sempre più in fretta.
La storia è piena di esempi simili.
Si tratta di un mercato che segue altre regole rispetto a quello tradizionale e cercare di applicare le stesse norme è stupido (ed è il meno) e economicamente svantaggioso (e questo è grave).
Penalizzare gli utenti con delle regole che non comprendono, colpevolizzarli e trattarli alla stregua di criminali non giova mai agli affari.
Gli utenti sono le persone come noi, persone che capiscono bene le regole del possesso e della proprietà privata, mentre capiscono molto poco quelle del copyright.
Quando qualcuno di noi compra qualcosa lo possiede ed è libero di farne quello che vuole, questo è un concetto noto a tutti.
Che questa liberà sia violata in nome di una norma artefatta non è una cosa che gli acquirenti tendono ad accettare passivamente.
E le DRM svantaggiano gli autori così come svantaggiano gli utenti.
In uno dei suoi saggi Cory Doctorow afferma che, per lui, la libera circolazione dei sui testi lo ha aiutato nelle vendite dei suoi libri e che, al contempo, ha creato un’economia parallela che gli permette di essere intervistato come esperto nel settore, che lo ha fatto conoscere ai media e a collaborare con i giornali.
Per questo motivo ogni volta che scrive un libro lo rende subito disponibile in download gratuito per chi voglia.
E non ha mai notato cali di vendite, anzi, un leggero incremento.
Cory riassume tutto con il suo solito stile:
“Ricevo letteralmente migliaia di e-mail da persone che mi dicono: “Ho trovato il tuo romanzo online gratuitamente, mi ha preso, e ho deciso di comprarlo.” Invece, ho ricevuto solo cinque e-mail da persone che dicevano: “Hey, idiota, grazie per il libro gratuito, ora non ho bisogno di comprare l’edizione stampata, ah ah!””
Cory non è uno scrittore famoso come lo sono altri nel suo campo, ed è il primo a dire che la gente non compra i suoi libri non tanto perché li downloadda gratis, cosa che farebbe comunque se volesse, ma perché non sanno nemmeno che lui esiste.
E se la rete gli da la possibilità di essere conosciuto distribuendo gratis la sua opera, allora ben venga.
Vorrei quindi concludere questo articolo usando questo articolo stesso come esempio di libera circolazione delle informazioni e ritorno economico (articolinception!).
Mentre cercavo fonti per scriverlo mi sono imbattuto in Content di Cory, e, come vedete, ne ho tratto alcune informazioni.
Content era disponibile gratuitamente per il download e così ho fatto.
Avrei potuto fare un’offerta a Cory per il suo libro ma non l’ho fatto (principalmente perché sono una brutta persona).
Quindi Cory ci ha perso denaro.
Se però Cory avesse unicamente venduto il suo saggio, anche solo a un prezzo irrisorio (che so, 2 euri) non lo avrei comprato e non mi sarei nemmeno sbattuto a cercarlo on line.
Avrei comunque scritto l’articolo in quanto avevo comunque abbastanza informazioni, semplicemente non avrei messo alcuni aneddoti.
Quindi Cory ci avrebbe rimesso in entrambe i casi, con la differenza che, rendendo libera e downloaddabile la sua opera io l’ho letta e l’ho usata e ho citato lui e il suo libro.
Magari qualcuno che non sa chi è Cory capiterà su questo blog alla ricerca di robaccia economica e troverà il suo nome e scoprirà che è uno scrittore e anche bravo, e magari comprerà il suo libro.
Magari no, ma se non lo avesse reso disponibile gratuitamente oltre a non guadagnarci comunque nulla avrebbe perso anche questa opportunità.
In pratica gli ho fatto pubblicità gratis.
E la pubblicità del tipo migliore, quella che fa comprare le opere: io compro molti più libri, fumetti e videogiochi perché me li consiglia un amico, o un blog di fiducia rispetto a un cartellone pubblicitario.
Cory afferma candidamente che 700.000 persone hanno downloaddato il suo libro e che queste 700.000 persone erano libere di sparpagliarlo per la rete come più gli andava, e le persone lo hanno fatto e il suo libro (cartaceo) ha avuto 6 ristampe in tre anni.
E se Cory è contento e io sono contento, direi che abbiamo vinto tutti.
Bene, se siete arrivati vivi fino a qui vi premio con un paio di aneddoti divertenti tra quelli presi da Content, enjoy!
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[…] Quando furono inventate la radio e i dischi, fu una brutta notizia per gli artisti dell’epoca. Un’esibizione dal vivo richiedeva carisma, l’abilità di creare uno spettacolo magnetico davanti a un pubblico.
Non importa quanto fossero dotati tecnicamente: se stavano immobili come statue sul palco, nessuno voleva vederli.
D’altro canto, riuscivano a sopperire alla loro mediocrità, purché affrontassero l’esibizione con molto brio.
La radio fu, senza dubbio, una buona notizia per i musicisti: un numero maggiore di loro poteva fare più musica, raggiungendo molta più gente e facendo molti più soldi.
Trasformò l’esibizione in un’industria, che è ciò che succede quando si aggiunge la tecnologia all’arte.
Ma fu una terribile notizia per gli artisti carismatici.
Finirono in mezzo alla strada a vendere maledetti hamburger e a guidare taxi.
Lo sapevano anche loro.
Decisero quindi di riunirsi in gruppo per proibire la diffusione della radio di Marconi, e chiedergli di progettare un’altra radio per cui si potesse vendere il biglietto.
“Siamo carismatici, facciamo qualcosa che è sacro e vecchio come la prima storia raccontata intorno al primo fuoco nella prima grotta.
Che diritto avete di trasformarci in semplici impiegati, che lavorano in un’oscura stanza sul retro, lasciandovi comunicare con il nostro pubblico al nostro posto?”
[…]
Ma l’abilità di Internet di abbassare i costi permette agli artisti di raggiungere un pubblico più ampio e a quest’ultimo di scoprire nuovi artisti e rendere possibile una diffusione della musica varia come mai prima d’ora.
Questi artisti possono sfruttare Internet per riportare le persone ai loro spettacoli che caratterizzavano l’epoca d’oro del Vaudeville.
Potete utilizzare le vostre registrazioni – che non siete in grado di controllare – per attirare più persone ai vostri spettacoli, che potete controllare.
È un modello che ha funzionato bene per jam band come i Greatful Dead e i Phish.
È anche un modello che non funziona per molti artisti di oggi: settant’anni di pressione evolutiva hanno selezionato artisti virtuosi più che carismatici, artisti con caratteristiche più adatte a guadagnare grazie alla registrazione che all’esibizione dal vivo.
“Come vi permettete di definirci scimmie addestrate a saltellare su un palco per il vostro divertimento?
Noi non siamo carismatici, siamo colletti bianchi.
Noi comunichiamo con le nostre muse dietro porte chiuse e consegniamo il nostro lavoro quando è pronto, attraverso laser disc etichettati.
Non avete nessun diritto di chiederci di diventare un’economia da spettacolo dal vivo”.
La tecnologia dà, la tecnologia toglie.
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L’eccellente programma della Pop Art Portraits, l’attuale mostra della National Portrait Gallery di Londra, ha molto da raccontare sui quadri appesi ai muri e i diversi materiali utilizzati dagli artisti per produrre le loro opere provocatorie.
Apparentemente sembra che abbiano tagliuzzato riviste, copiato fumetti, disegnato personaggi di cartoni famosi come Minnie Mouse, riprodotto copertine della rivista Time, utilizzato ironicamente i cartoni di Charles Atlas, dipinto sopra foto ironiche di James Dean e Elvis Presley, e tutto questo solo nelle prime sette stanze.
Il programma descrive l’esperienza estetica evocata dalle icone di qualsiasi tipo di cultura, trasfigurate grottescamente.
Famosi artisti della Pop Art compresi Larry Poons, Robert Rauschenberg e Andy Warhol hanno creato queste immagini fregando i lavori di altri, senza permesso, e trasformandolo in modo da
fare dichiarazioni ed evocare emozioni mai espresse dai creatori originali.
Ciò nonostante, il programma non dice una parola sul copyright.
Potete biasimare gli autori?
Un trattato, su come il copyright e il marchio di fabbrica potrebbero – avrebbero dovuto – ostacolare la creazione di queste opere, potrebbe riempire interi volumi.
Leggendo il programma della mostra, potete solo presumere che il messaggio del curatore sul copyright sia che qualora si tratti di libertà d’espressione, i diritti dei creatori del materiale originale passano in secondo piano rispetto a quelli degli artisti della Pop Art.
C’è, in ogni caso, un altro messaggio sul copyright nella National Portrait Gallery: è implicito nel cartello “vietato scattare fotografie” esposto bene in vista in tutte le sale, inclusa l’entrata della mostra dei Pop Art Portraits.
Questi cartelli non intendono proteggere le opere dagli effetti devastanti dei flash delle macchine fotografiche (altrimenti leggereste “vietato scattare foto con flash”).
No, il divieto sulle foto è teso a proteggere il copyright delle opere appese ai muri, un fatto che ogni membro dello staff mi ha confermato immediatamente.
Infatti, sembra che ogni centimetro quadrato della National Portrait Gallery sia protetto da qualche tipo di copyright.
Non mi era permesso neanche fotografare il cartello di divieto.
Un membro dello staff mi ha spiegato che la tipografia e la disposizione dei caratteri dei cartelli sono protetti da copyright.
Quindi qual è il messaggio della mostra?
È la celebrazione del rimescolamento della cultura, approfittando delle infinite possibilità aperte dall’appropriazione e dal riutilizzo di immagini senza permesso?
Oppure è l’epitaffio sulla lapide dei giorni beati prima che le Nazioni Unite fondassero la WIPO e la mania che ne è seguita di trasformare ogni cosa che può essere sentita e registrata nella proprietà di qualcuno?
Questa mostra – pagata con soldi pubblici, allestita con alcune opere che sono proprietà di istituzioni pubbliche – cerca di ispirarci a diventare artisti della Pop Art del ventunesimo secolo, armati di fotocamere, siti Web e mixer, o intende informarci che la nostra possibilità è sfumata e sarebbe meglio ci accontentassimo di una vita da servi della gleba dell’informazione che non possono neanche utilizzare liberamente ciò che vedono e che sentono?
Forse, solo forse, questa è, in realtà, una mostra dadaista mascherata da Pop Art.
Forse il punto è allettarci con la deliziosa ironia di celebrare la violazione del copyright mentre allo stesso tempo prendiamo coscienza che anche il cartello “vietato scattare foto” è una forma di proprietà che non può essere riprodotta senza il permesso: permesso che non otterremo mai.
(nota mia: mi sono cappottato a immaginare Cory che rompe le scatole a ogni inserviente del museo chiedendogli lumi sul copyright)
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