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[quote]”Nel caso dei geni che predispongono a comportamenti violenti, credo che negare la relazione tra la loro presenza e il carattere dell’individuo sia come negare la relazione tra il fumo di sigaretta e il cancro solo perchè qualcuno, pur fumando, non si ammala”
Pietro Pietrini, docente di biochimica all’Università di Pisa ed esperto di imaging cerebrale[/quote]
Non molto tempo fa mi è capitato di leggere un interessante articolo sul [b]neuroimaging[/b] e sul suo sempre più frequente utilizzo in ambito legale.
Gli sviluppi di questa tecnica nascono dalla necessità oggettiva di ottenere prove fondate su esami medici, in grado di attestare l’esistenza di un disturbo. Per semplificare il tutto la domanda che si potrebbe porre è -Si può “leggere” nel cervello di un imputato la colpevolezza?-. Sarebbe bello verrebbe da dire!
Ovviamente la questione non è così semplice.
Le basi di questo tipo di analisi nascono ben 150 anni fa, proprio in Italia.
[title]L’idea di Lombroso[/title]
A molti sarà capitato di sentir nominar tale [b]Cesare Lombroso[/b]. Nato a Verona nel 1835 , medico, antropologo e criminologo, fu il primo ad ipotizzare un collegamento causa-effetto tra una sorta di disfunzione cerebrale e l’atto criminale. Analizzando infatti, durante un’autopsia, le ossa di un noto bandito, si accorse che una delle fossette del cranio, quella occipitale, era più sviluppata del normale, caratteristica tipica dei calchi di crani primitivi. Il passo tra questa identificazione casuale e la teoria sull’origina biologica dei comportamenti criminali fu breve.
Influenzato dalla teoria darwiniana e dalle allora recenti scoperte sull’uomo di Neanderthal il medico torinese affermò che chi delinque rappresenta una categoria umana [b]meno evoluta[/b], che conserva caratteri primitivi. Ovviamente quella di Lombroso è una teoria piuttosto semplicistica che però scosse non poco la società dell’epoca. Ci basti pensare che all’epoca l’atto criminale veniva visto come un peccato (non tanto in base ad una questione morale, ma in base a concetti derivanti dalla dottrina della Chiesa cattolica) e non come manifestazione di un comportamento umano con cause ed effetti.
Quel che è certo è che oggi, osservando i suoi errori in una prospettiva storica, possiamo rivalutare la parte innovativa del suo pensiero senza negare quella antiscientifica, e fare tesoro di questa esperienza del passato quando affrontiamo la questione dell’origine biologica dei comportamenti criminali.
[title]L’ereditarietà della violenza[/title]
Come spiega Pietrini, nessun esperto parlerà mai dei geni in [b]termini deterministici[/b]. La colpa delle nostre azioni delittuose non è dei geni, sia ben chiaro, ma quelli “sbagliati” possono rendere più difficile il controllo degli impulsi, specie in situazioni sociali complesse. Ad esempio la combinazione di un’infanzia problematica e la presenza di questi geni sembra essere fatale.
Di parere assolutamente opposto è Nita Farahany, giurista della Vanderbilt University Law School e consigliera bioetica del presidente Obama. (Ebbene si! Se sei il presidente degli Stati Uniti puoi permetterti una consigliera bioetica, una sorta di voce della coscienza!lol). Secondo quest’ultima il determinismo genetico che si nasconde dietro questi test nei tribunali è molto pericoloso. Si rischia infatti, a parità di crimine commesso, di giustificare chi ha un “gene sbagliato”, mentre nella maggior parte dei casi non è così: una predisposizione genetica non ci priva del libero arbitrio.
Pietrini sostiene però che esistono già condizioni attenuanti riconosciute. Proprio un passato di violenza e maltrattamenti può portare a una riduzione della pena, poichè i giudici accettano l’idea che la storia personale possa limitare la libertà di scelta dell’individuo. Allora perchè non bisogna fare lo stesso ragionamento per la [b]genetica[/b]? si chiede Pietrini.
[title]Il dilemma Dugan[/title]
Per la prima volta negli Stati Uniti, una giuria popolare è stata invitata a valutare l’opportunità di condannare a morte un individuo sulla base di ciò che appare nella risonanza magnetica funzionale del suo cervello. E’ accaduto nel 2009 in un tribunale dell’Illinois. Il caso è quello di Brian Dugan, condannato a morte per la violenza sessuale e l’omicidio di una bambina di dieci anni e sospettato di almeno altri 13 casi simili.
Fin da bambino Dugan aveva manifestato comportamenti antisociali e una certa propensione alla violenza. I fratelli raccontano che a sei anni ha incendiato il garage della propria casa e che a dodici ha cosparso di benzina il gatto e gli ha dato fuoco. Alla luce di questi precedenti e di una diagnosi psichiatrica di psicopatia, i difensori di Dugan si sono rivolti ad un esperto di neuroimaging, lo psichiatra Kent Kiehl, che da anni studia la struttura cerebrale dei criminali psicopatici al fine di dimostrare l’esistenza di un’alterazione che spieghi il loro comportamento. In Illinois infatti non è permesso condannare a morte un individuo già mentalmente compromesso al momento dell’esecuzione di un crimine. Secondo gli studi di Kiehl e altri esperti di neuroimaging, i pazienti affetti da psicopatia presentano un lobo limbico ( quello che consente l’elaborazione delle emozioni) più piccolo del normale: una situazione che li renderebbe incapaci di provare pietà per le proprie vittime. Dopo averlo sottoposto a diversi esami, Kiehl ha riscontrato in Dugan la stessa alterazione. Se da un lato la sua testimonianza ha risposto alla necessità di convincere i giurati del fatto che Dugan è un malato mentale, dall’altro ha rafforzato l’idea che si tratta di una persona pericolosa e sostanzialmente irrecuperabile, che rischia, se messa in condizione di farlo, di ripetere i propri crimini. Dopo ore di camera di consiglio, i giurati, molto confusi, hanno chiesto un supplemento di spiegazioni. Il giudice si è appartato con loro, ha fornito la consulenza e al termine di una seconda seduta la condanna a morte è stata confermata. Poichè negli Stai Uniti il giudice non potrebbe appartarsi con i giurati né influenzare il loro giudizio, gli avvocati di Dugan hanno fatto ricorso: al momento l’imputato sta aspettando un nuovo processo nel braccio della morte.
[title]A Trieste il primo caso[/title]
Possedere il “gene della violenza” costituisce un’attenuante in un caso di omicidio: lo ha stabilito per la prima volta in Europa un giudice di Trieste nel 2009. Nel marzo del 2007 Abdelmalek Bayout è stato condannato a nove anni e tre mesi di prigione per aver accoltellato un colombiano di 32 anni, Walter Perez. Tutte le perizie psicologiche eseguite su di lui nel corso del processo di primo grado dimostravano un carattere chiuso, una scarsa propensione alla socializzazione e, sostanzialmente, una mancata integrazione che faceva di lui un uomo molto solo. Sottoposto a diversi test il DNA di Bayout risulta positivo per uno dei due geni associati ad uno scarso controllo dell’aggressività, [b]il gene delle monoaminossidasi A (MAO-A)[/b], che codificano per alcuni neurotrasmettitori molto importanti per il funzionamento del nostro cervello. Davanti alla perizia degli esperti, peraltro molto prudente e attenta a non dare un peso eccessivo alla scoperta, e dopo accurata valutazione di tutti gli elementi in gioco, il giudice triestino ha concesso infine un’ulteriore riduzione di un anno della pena.
Proprio questa affermazione (cioè l’esistenza di una relazione causa-effetto tra la presenza di un particolare gene e la perdita di controllo) ha fatto discutere gli esperti di tutto il mondo. Negli Stati Uniti è in corso una riflessione sulle tematiche etiche legate a questa interazione: la sostiene il progetto [b][i]Law and Neuroscien[/b]ce [/i], diretto dal neuroscienziato Michael Gazzaniga e finanziato dal governo federale. Gazzaniga spiega :”Le leggi sono piene di affermazioni basate sul buon senso, ma non sottoposte al vaglio della scienza. E’ ovvio che sia così, perchè ai tempi in cui sono state gettate le basi del diritto, certe scoperte sul cervello e sulla natura umana erano di là da venire. Oggi però non possiamo prescindere da quel che la scienza ci dice su come funzioniamo, quindi dobbiamo modificare alcuni punti di vista. Ma solo dopo esserci accertati che si tratti di teorie con un solido fondamento sperimentale.”