C’è un intero filone della letteratura fantascientifica che si fonda sulla differenza tra evoluzione e progresso. Esso si basa sul fatto che l’avanzamento tecnologico e quello biologico non garantiscono lo sviluppo di capacità necessarie a progredire in un senso più ampio e più importante. Capacità come ad esempio come quella di saper costruire una realtà democratica ed eterogenea e in grado di prosperare in armonia con un ecosistema comprensivo di diverse razze. Questa mancanza porta chi sta al vertice della catena alimentare a ritrovarsi in un loop in cui si ripropongono logiche di società antiche che di era in era hanno lottato per la sopraffazione sia tra simili che tra diversi senza arrivare a fare il fatidico passo in avanti.

Nella recensione de Il regno del pianeta delle scimmie (ennesimo titolo rimasticato del franchise), nei cinema italiani dall’8 maggio 2024 con 20th Century Studios.,  vi parliamo del primo capitolo della trilogia sequel della saga reboot (uno scioglilingua, ce ne rendiamo conto) de Il pianeta delle scimmie, ovvero il titolo più importante del cinema commerciale ascrivibile al filone citato in apertura di articolo.

Un capitolo che, in quanto degno esponente di questo tipo di fantascienza, rischia di trovarsi ingabbiato in un immaginario già proposto, affrontato e superato senza trovare il bandolo della matassa, come chi sta, di volta in volta, al vertice della catena alimentare. Il sussulto, ovvero la strada per uscire dall’empasse, è chiamato a darla il suo protagonista, che, nelle mani di un regista specializzato in coming of age dal sapore sci-fi come Wes Ball (nome dietro Maze Runner), può, nella speranza della produzione, fiorire.

Un nuovo protagonista che svolge il suo sguardo verso il cielo, a differenza di come faceva il suo predecessore nella trilogia prequel, che invece guardava all’orizzonte. Un modo per voltare pagina, scrutando verso un luogo che ci ricorda che siamo tutti uguali, anche perché sulla Terra non si riescono a trovare nuove prospettive.

Un regno del pianeta delle scimmie

Invece de “Il regno de il pianeta delle scimmie”, la storia del film inizia in UN regno del pianeta che ormai, dopo la diffusione del virus che ha ridotto gli umani alla regressione cognitiva, è praticamente solo delle scimmie. Un regno pacifico abitato da un clan pacifico che vive in perfetta armonia con la natura circostante e che come principale occupazione alleva aquile. Per la precisione sarebbe meglio dire che tutti i componenti della tribù vivono nella vera e propria venerazione dei volatili, che, guarda caso, abitano proprio il luogo che il protagonista guarda con occhi speranzosi.

Il protagonista è Noa (Owen Teague), ovvero il giovane figlio di uno dei saggi che si occupano di governare il clan ed anche la scimmia che per qualche motivo è la più intelligente e dotata tra tutte le altre (lo si capisce subito dalla sua incredibile abilità nello scalare le montagne). Una notte la sua casa viene attaccata da un altro clan, invece cattivo, che mette a ferro e fuoco tutte le abitazioni e rapisce la sua famiglia e i sui affetti. Noa è allora chiamato a compiere un viaggio per rintracciare il clan che si è macchiato di tale oscenità e riportare tutti a casa. Semplice e lineare.

Il regno del pianeta delle scimmie

Durante il pellegrinaggio il protagonista incontra due personaggi. Uno è il saggio orango Raka (Peter Macon), un importante studioso che permette a Noa e allo spettatore di fare il punto sui 300 anni che separano questo film dal precedente e di inserire degli elementi già visti, come la distorsione degli insegnamenti di un eroe storico che hanno portato ad una divisione netta tra chi professa di vivere in suo nome.

L’altro è la misteriosa umana Mae (Freya Allan, che spreca un po’ l’occasione di presentarsi al grande pubblico alzando il livello della sua interpretazione), la quale si unisce al duo perché in conflitto con il nemico comune, ovvero il clan cattivo, che ha il suo punto di riferimento nel re Proximus (Kevin Durand), una scimmia (anzi, un esemplare di scimmia di Bili, se interessa agli appassionati) dittatrice con uno scopo malvagio ma, anche questo, purtroppo, già visto e non solo nel franchise de Il pianeta delle scimmie.

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La speranza passa dagli occhi

Il regno del pianeta delle scimmie è una pellicola piuttosto derivativa, che decide soprattutto in sede di scrittura di portare a casa il suo compito pescando soprattutto dalle tematiche dell’universo da cui proviene, mescolandole con altre di natura antropologica già affrontate da altri franchise dal successo commerciale enorme.

Questo gli permetterebbe di accennare una sorta di commistione che però rischia di sfumare dato l’impianto solido in cui si trova. Un impianto che in realtà poteva reggere un urto ben maggiore, come prova il terzo atto, dove qualcosa in più si osa, quando l’uomo e tutte le sue ambiguità tornano protagoniste dopo aver assistito per la maggior parte del tempo ad un conflitto in cui non era preso in considerazione. Ritardo percepito non a causa del (tanto) minutaggio quanto a causa del ritmo altalenante e a tratti pedissequo di una storia che fa fatica ad emanciparsi.

Il regno del pianeta delle scimmie

La struttura da coming of age, infatti, più che dare ordine e porre le basi per il futuro, irrigidisce una pellicola dallo sviluppo e dalle tematiche già di per sé piuttosto telefonate e che quindi aveva invece bisogno di un pizzico in più di anarchia. Come se non bastasse, anche quando arriva il cambio di passo, non è che si veda questa grande novità. Non fraintendeteci però, non è tutto da buttare, specialmente quando parliamo di intuizioni prettamente cinematografiche. A sottolineare la bontà di questo aspetto c’è la regia, precisa e in grado di regalare momenti mozzafiato, inquadrature suggestive e ottimi momenti action, coadiuvato da un reparto effettistico pienamente all’altezza della situazione.

Tra luci e ombre Il regno del pianeta delle scimmie ci propone la solita solfa: il cattivo vuole le stesse cose di sempre e gli umani, dal canto loro, sono le figure banalotte di sempre, con la loro intelligenza e le loro meschinità. La scimmia dovrebbe essere evoluta, ma ripropone le stesse logiche dell’uomo perché vuole essere come l’uomo, quando in realtà la sua natura la spingerebbe ad essere meglio di lui. C’è una sequenza rivelatrice di discesa e ascesa assolutamente centrata in questo senso. Ma parliamo, purtroppo, di sussulti (per quanto assolutamente apprezzabili), come quello che vede uno scimpanzé e una ragazza condividere lo stesso sguardo verso l’alto, verso un’altra storia, un altro immaginario e un altro futuro, nella speranza che si esca dal loop. All’orizzonte si scorge ben poco di diverso.

60
Il regno del pianeta delle scimmie
Recensione di Jacopo Fioretti

Nella recensione de Il regno del pianeta delle scimmie, il primo capitolo della trilogia prequel della saga reboot diretto da Wes Ball vi abbiamo parlato di un capitolo che, da degno esponente del filone, ne ripropone qualità e criticità. Sono però le seconde a prendere il sopravvento data la necessità di guardare oltre le solite tematiche e logiche, al netto di alcune intuizione ottime e delle sequenze assolutamente all'altezza. La speranza per il futuro è uno sguardo condiviso che sà di qualcosa strada nuova.

ME GUSTA
  • La regia, nello specifico alcune scene mozzafiato e le sequenze action.
  • Il reparto effettistico è all’altezza della situazione.
  • Alcuni sussulti cinematografici, in primis uno sguardo condiviso.
FAIL
  • Un coming of age troppo rigido.
  • Il ritmo altalenante della pellicola.
  • Solite tematiche, solite logiche, solite conseguenze.