All’indomani di Salvate il soldato Ryan, che voi ci crediate o meno, Steven Spielberg non si sentiva soddisfatto del suo svisceramento dell’immaginario legato alla Seconda Guerra Mondiale sul grande schermo. Nonostante la portata di una pellicola che ha fatto la storia non solo del war movie americano, ma della storia del cinema statunitense in generale, il cineasta di Cincinnati sentiva di avere ancora molto da dire, permeato da una fascinazione totale per l’epica intorno al conflitto.
Una sorta di ossessione quasi trascendentale, ma dall’urgenza praticamente epidermica, che l’ha accompagnato dal 2001 a oggi, dall’uscita della serie tv Band of Brothers – Fratelli al fronte a quella di Masters of the air, che ha appena terminato il suo viaggio di 9 episodi in streaming su AppleTV+. I due titoli infatti, insieme a The Pacific, si sono occupati di raccontare in modo ancora più specifico le campagne statunitensi della guerra ’39 – ’45, partendo da storie reali e adottando il punto di vista delle truppe di terra, quelle di mare e quelle che solcano i cieli, con una cadenza di uscita di circa 10 anni l’una dall’altra.
All’indomani di Salvate il soldato Ryan, che voi ci crediate o meno, Steven Spielberg non si sentiva soddisfatto del suo svisceramento dell’immaginario legato alla Seconda Guerra Mondiale sul grande schermo.
Intanto il cinema è cambiato e soprattutto è cambiato il linguaggio televisivo, che ha subito un’innovazione incredibile partita proprio dai primi anni Duemila, tale da aver cambiato le potenzialità dello strumento audiovisivo e, parallelamente, anche le aspettative del suo pubblico. Il mondo invece è cambiato molto meno, tanto che le tematiche affrontate nelle serie assumono un eco tragicamente attuale. Una sorta di terra di mezzo in cui una platea c’è, ma ciò non toglie che urge aggiornarsi e trovare un nuovo modo di parlare.
Forse il difetto principale e il motivo per il quale il terzo atto di questa trilogia rischia di essere il più debole tra tutti. Le premesse sono le medesime dei predecessori, la linea editoriale è coerente e omogenea, le tematiche sono le solite e l’investimento emozionale è quello di sempre (calibrato anche bene in quanto ad equilibrio retorico), ma non c’è nulla che parli veramente al presente in termini linguistici e questo inevitabilmente non può che far risaltare la vecchiaia dell’impianto.
Una serie sospesa a metà
Masters of the air, basata sul libro di Donald Miller del 2007, Masters of the Air: How The Bomber Boys Broke Down the Nazi War Machine, è una miniserie creata per la televisione da John Shiban e John Orloff, due sceneggiatori importanti con una grande esperienza alle spalle (il primo ha lavorato con Vince Gilligan e si è occupato di Ozark, mentre il secondo aveva già preso parte a Band of Brothers – Fratelli al fronte), che si sono messi ovviamente a disposizione di un progetto orchestrato da un nome importantissimo e che già aveva costituito una propria impalcatura più che riconoscibile. Forse anche troppo a disposizione, soprattutto nei primi episodi.
La miniserie sembra infatti divisa in due tronconi anche piuttosto distanti dal punto di vista narrativo e di messa in scena, perché se da una parte l’enfasi è tutta sul traumatico adattamento alla guerra, improntato su coraggio e sacrificio (o sacrifici), oltre ala costruzione delle mitologia legata al “100th Bomb Group” (100º Gruppo Bombardieri) dell’United States Army Air Forces, la seconda parte si concentra sulla narrazione più generale della guerra, mostrando anche quel controcampo nazista completamente ignorato all’inizio.
Forse anche troppo a disposizione, soprattutto nei primi episodi.
È un po’ come se la prima parte di Masters of the air cercasse di catturare il pubblico affidandosi alla potenza della messa in scena e alla sapienza registica di Cary Fukunaga (il nome che tra le maestranze dell’operazione risulta sicuramente come quello di maggiore attrattiva), lasciando in secondo piano la ricercatezza delle vie narrative, stantie quando sono semplici e sconclusionate quando diventano complesse. La ricerca della drammaticità ad ogni costo attraverso soluzioni ripetitive e il totale disinteresse di avventurarsi in delle logiche che avrebbero potuto far emergere un punto di vista sulla guerra quanto meno differente dagli eroici giovani a bordo dei B-17.
Un tiro che nella seconda parte viene corretto, portando la storia finalmente a diramarsi seguendo la dispersione dei suo protagonisti tra aria e terra per mostrarci la situazione oltre le linee nemiche e cercando una reale indagine sulla condizione umana dei soldati a prescindere dalla sfera emotiva legata al coraggio impiegato nelle missioni e al peso del perseguimento della giustizia ad ogni costo. Due elementi che poi tornano a mostrarsi in tutto il loro splendore nel gran finale, riadoperando l’intero immaginario intrisi di retorica statunitense e troncando così ogni tipo di discorso che avrebbe potuto creare invece un legame con il tempo presente.
Ci si è fermati appena in tempo, forse
Ecco, il legame con il tempo presente è ciò che invece manca totalmente a Masters of the air. Un po’ perché non è neanche un reale obiettivo di un’operazione che non vuole denunciare gli orrori della guerra, quanto mostrare il coraggio dei soldati americani che hanno superato ogni avversità ed ostacolo in nome della libertà, e un po’ perché non accetta nessun tipo di approfondimento politico in questo senso. Già solo questo dovrebbe far riflettere su quanto un prodotto del genere possa essere ancora visto come attuale da un pubblico internazionale, vista la fase storica che stiamo vivendo e anche il momento che i racconti audiovisivi stanno vivendo.
Il filtro attraverso il quale la maggior parte delle puntate vengono messe in scena è talmente patinato da causare un progressivo distacco dalla realtà, tanto che il momento finale in cui vengono mostrati i veri volti di coloro che hanno ispirato i personaggi diventa quasi scioccante. Un cortocircuito che potrebbe far riflettere anche sulla scrittura degli stessi, che non rende giustizia a prove invece interessanti, soprattutto da parte di Callum Turner, Austin Butler, Anthony Boyle e Nate Mann, per non parlare del trattamento riservato agli altri, a cui non viene neanche donata una degna conclusione.
Ecco, il legame con il tempo presente è ciò che invece manca totalmente a Masters of the air.
Infatti, se la messa in scena è ancorata ad una versione pop che la depotenzia e un po’ la banalizza, la scrittura risulta dal canto suo piuttosto confusa, iniziando un discorso per poi tornare indietro, effettuando dei tagli anticlimatici e castranti per lo potenzialità narrativa di strade scelte in precedenza, ma che non vengono battute fino in fondo. Veramente un peccato perché negli sprazzi di cui la serie vive si nota invece tutta la possibile bontà del lavoro delle parti coinvolte, ma finché di sprazzi si vive è difficile riempire 9 puntate.
Alla fine Masters of the air potrebbe essere vista come una serie nata dalla necessità di chiudere un discorso su di un culto di un cineasta leggendario nei riguardi della storia della Seconda Guerra Mondiale e da ciò che ha mosso le imprese di coloro che sono passati alla Storia come i portatori di una libertà che ha dato il via alla nascita dell’attuale Mondo Occidentale. Lo fa concentrandosi su questo e lasciando tutto il resto sullo sfondo, sfumato, poco a fuoco, ma come pagando la consapevolezza che quel mondo e quei valori ad oggi sono in crisi, dimostrando così come anche l’efficacia del loro racconto lo sia.